Basket, Kobe Bryant dà l'addio alla NBA: 60 punti, emozione, lacrime per una leggenda vivente

La stella dei Los Angeles Lakers ha chiuso la sua avventura da giocatore nel basket professionistico con una prestazione irreale. L'ultima gara contro gli Utah Jazz è stata la passerella finale di uno dei più grandi cestisti della storia del gioco. Ripercorriamo la sua carriera insieme tra ricordi, immagini e video
Kobe Bryant saluta il basket NBA e i Lakers nell'ultima sfida della sua carriera
Francesco Tanilli
17 min

ROMA - Finisce qui. Dopo 20 anni di carriera Kobe Bryant ha detto addio al basket. Lo ha fatto nel modo più romantico e più classico possibile, con la passerella finale allo Staples Center, nel duello tra Los Angeles Lakers e Utah Jazz, nell’ultima gara di stagione regolare, in quello stadio che per quasi quattro lustri (fino al 1999 LA ha giocato al Great Western Forum) lo ha visto protagonista sotto ogni punto di vista: vittorie e sconfitte, trionfi e delusioni, imprese indimenticabili (tante) e crolli inaspettati (pochi). Fino al tripudio finale di questa notte. La presentazione di Magic Johnson, il saluto in video di Shaq, Fisher, Durant, Wade, Nowitzki, Popovich, Garnett, Anthony, Curry, James, Gasol, Odom, Jackson e Jack Nicholson.

L’ovazione dello Staples Center. L’inno degli Stati Uniti di Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers. Lacrime e ricordi, sorrisi e tristezza, consapevolezza e pace. Poi la palla a due, per l’ultima volta, con Bryant capace di mettere anche 60 punti nella sua ultima partita, più di ogni altro giocatore nella sua ultima partita da professionista. E poco importa se ci sono voluti 50 tiri. Vittoria in rimonta (101-96), con un'uscita di scena degna di una leggenda vivente e l'ovazione dello Staples a 4''.1 dalla sirena finale. Impossibile volere di più. A fine partita l'ultimo saluto: «Sarete sempre nel mio cuore, Da piccolo ero tifoso Lakers, non avrei potuto chiedere di meglio. È un sogno diventato realtà. Ho cercato di non guardare troppo la tv o leggere i giornali e nei primi minuti sono andato male ma poi con qualche giocata difensiva sono tornato in partita. Sono tranquillissimo nel lasciare, quando andrò a letto stasera rinrgazierò Dio e spenderò più tempo con la mia famiglia».

FOTO - Kobe Bryant dà l'addio contro gli Utah Jazz

IL RITIRO - È stata un’ultima stagione in tono minore per Bryant, iniziata con la speranza di poter ancora dare emozioni ai propri tifosi e poi maturata con la decisione finale di dire basta. Sì perché KB24 ha dato tutto in questi anni, forse troppo, e il fisico ha detto stop. Troppi chilometri, troppi infortuni, troppo usurato. In America lo chiamano “father time”, l’imbattibile, l’inesorabile trascorrere del tempo di fronte al quale anche i più grandi devono arrendersi, fermarsi. Persino un lottatore come Kobe ha alzato bandiera bianca: la lettera al basket, scritta lo scorso novembre per sancire il suo addio, è stata l’inizio della fine sportiva di uno dei più grandi campioni di sempre della palla a spicchi, che ha segnato un’epoca, che ha diffuso ancora di più nel mondo il modello NBA, raccogliendo il testimone lasciato da Michael Jordan e che ha reso questo sport sempre più globale rispetto al passato.

TERZO MIGLIOR MARCATORE - Un personaggio controverso Bryant, amato e odiato allo stesso tempo, forse il campione che più ha spaccato l’opinione pubblica, che ha fatto discutere per ore appassionati, addetti ai lavori o semplici tifosi. Un giocatore unico per capacità tecniche, meno fisico rispetto ad altre stelle del suo stesso calibro, ma che grazie a fondamentali impressionanti (peraltro sviluppati e assimilati nella sua giovinezza in Italia) è riuscito a colmare quel gap che gli mancava per entrare nel gotha del basket mondiale. Cinque titoli NBA (tutti con i Lakers, ovviamente), due ori Olimpici, due volte miglior giocatore della finali, una volta miglior giocatore per la stagione regolare, 18 volte All Star, quattro volte miglior giocatore dell’All Star Game, due volte miglior marcatore della Lega, vincitore della gara delle schiacciate e, dulcis in fundo, terzo miglior marcatore di sempre con 33643 punti realizzati. Davanti a lui solo Kareem Abdul-Jabbar (38387) e Karl Malone (36928). Meglio di Jordan (32292). Meglio di Chamberlain (31419).

CULTORE DEL GIOCO - Ma al di là delle statistiche, dei numeri, dei dati oggettivi, Bryant è stato un cultore del gioco, un vero maestro di questo sport, un esempio per tutti gli altri, per dedizione e abnegazione: il primo ad arrivare al campo d’allenamento, l’ultimo a lasciare l’arena dopo la partita (solo su questo argomento si potrebbe scrivere un libro). Non solo. Un’attenzione al dettaglio, una scrupolosa e ossessiva concentrazione ad ogni elemento, ad ogni aspetto, ad ogni particolare di ogni singola partita gli hanno permesso di primeggiare per anni, riuscendo a sconfiggere anche avversari più giovani e magari più quotati di lui in quel momento peculiare.

LA TESTIMONIANZA - Tempo fa emerse la testimonianza incredibile di un preparatore atletico che nel corso del “camp” di Las Vegas, in vista delle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, raccontò come Bryant lo chiamò nel cuore della notte per aiutarlo in una sessione extra. I due si allenarono in solitudine dalle 4.15 del mattino, fino alle 5.45 per poi salutarsi per cercare di riposare qualche ora. Poche ore dopo, alle 11, nuova seduta. Tutto “Team Usa” in campo. Compreso Bryant. I due si incontrano nuovamente e alla fine viene fuori che KB24 era rimasto tutta la mattina in palestra a tirare da solo per realizzare almeno 800 canestri. Senza dormire, senza riposo. Da solo, alla ricerca della perfezione. Un alieno.

LA NOTTE DEL DRAFT - Per non parlare della notte del Draft quando tutti andarono a festeggiare la scelta per una squadra NBA e Kobe prese il suo pallone, trovò una palestra e cominciò a tirare e a tirare fino ad arrivare a 1000 canestri. La notte del Draft. Da questo punto di vista Bryant è stato il più forte di tutti.

IL CONFRONTO - Nel corso delle stagioni poi il confronto che gli esperti facevano era costantemente tra lui e i migliori. Il minimo comune denominatore però era sempre e solo Bryant. Gli altri passavano. Lui restava: Jones, Hardaway, Iverson, McGrady, Allen, Pierce e chi più ne ha più ne metta. Kobe è stato il faro di una generazione di giocatori, non solamente per le prodezze in campo, ma anche e soprattutto per la passione e il coraggio profusi in ogni singola stagione.

I PRIMI TRE ANNI - Indimenticabili le sue annate con Shaquille O’Neal, i tre anelli di fila con Phil Jackson, gli anni della giovinezza che hanno formato il Bryant della maturità. Per anni si è parlato di “secondo violino” in riferimento al ruolo che Kobe avrebbe avuto in quei Lakers, ma in realtà Kobe fu un asse portante di quella squadra e senza il suo apporto difficilmente sarebbero arrivati tre titoli consecutivi (lo stesso discorso è da fare con Shaq, ovviamente), ultima squadra dopo i Chicago Bulls di Jordan a centrare l’impresa. Più che secondo violino fu un co-protagonista di eccezionale livello (basti ricordare la sfida finale con gli Indiana Pacers quando, con Shaq fuori per falli, nel decisivo supplementare di gara4, fu Bryant a levare le castagne dal fuoco con canestri decisivi a ripetizione, a soli 21 anni), sicuramente la coppia più letale della storia del gioco.

NUOVA ERA - Poi, dopo la stagione 2004, quella della finale persa contro i Detroit Pistons, quella in cui Bryant fece avanti e indietro con il Colorado per l'accusa di violenza sessuale ai suoi danni dalla quale uscì poi innocente, il Mamba divenne leader indiscusso dei Lakers prendendosi di fatto tutto il palcoscenico, con il nemico (poi oggi amico, a bordo campo per l’ultima gara) Shaq ceduto ai Miami Heat. Non c’è dubbio che in questi due anni, fino all’arrivo di Gasol e subito dopo la rottura con O'Neal, il carattere forte di Kobe ha avuto un ruolo fondamentale nella ricostruzione dei Lakers e forse rappresentano il rammarico più grande della carriera del Black Mamba.

I RECORD E LE DELUSIONI - Nel suo momento più sfolgorante, sia da un punto di vista fisico che tecnico, Bryant non aveva attorno a se una squadra che lo potesse aiutare a vincere altri titoli. Il 2006 però resta l’anno migliore da un punto di vista statistico e gli 81 punti contro i Toronto Raptors, il 22 gennaio 2006, rimangono una gemma difficilmente ripetibile in futuro. L’ottava meraviglia, come li definisce lo stesso Kobe. Indimenticabili, però, solo un mese prima, anche i 62 punti in tre quarti di gioco contro i Dallas Mavericks (che chiusero il terzo periodo a quota 61!), in quel momento la migliore squadra della Lega. Quell’anno spettacolare, però, ebbe un doppio epilogo amaro: prima la decisione di non assegnare l’MVP stagionale a Bryant, poi l’eliminazione incredibile contro i Phoenix Suns ai playoff con i Lakers avanti 3-1 e poi superati 4-3. In quella serie ci fu tutto il Bryant di quegli anni, grande imprese singole, ma che a livello di squadra non portavano poi al trionfo conclusivo. Perché alla fine si vince comunque in cinque, a prescindere da quanto tu possa essere forte.

ALTRA STAGIONE NEGATIVA - Anche la stagione successiva fu in chiaro scuro: grandi imprese personali, come le quattro partite di fila sopra i 50 punti (tra il 16 e il 23 marzo 2007, nda) primo giocatore della storia a riuscire nell'impresa dopo Wilt Chamberlain, ma poi ai playoff arrivò un'altra eliminazione dai Phoenix Suns, sempre al primo turno, ma questa volta per 4-1 e in modo molto meno combattuto dell’anno precedente.

I DUE ANELLI, IL NUOVO KOBE - Il trend però cambiò nell’inverno del 2008 quando alla corte di Bryant arrivò lo spagnolo Gasol. Prima la finale persa contro i Celtics (4-2), che di fatto preparò i Lakers ai successivi due anelli, quindi il successo del 2009 contro gli Orlando Magic (4-1) e la rivincita, indimenticabile per tutti i tifosi gialloviola, proprio contro Boston (4-3) con Bryant, Artest, Odom e tutti gli altri capaci di vincere gara7 proprio contro Boston, evento mai accaduto nella storia dei Lakers. Quelle due stagioni hanno rappresentato gli anni migliori per Kobe in cui le sue qualità erano al servizio di una squadra che, comunque, a livello di talento non aveva nulla da invidiare a nessuno, con Phil Jackson capace di mettere a referto altri due anelli nella sua straordinaria carriera da capo allenatore. Nel 2011, poi, la fine di quell’incredibile cavalcata quando lo scettro passò nelle mani dei Mavericks di Nowitzki.

IL TRAMONTO - Successivamente Bryant ha provato a ricostruire una squadra vincente (Howard e Nash insieme non hanno funzionato), ma sue scelte sbagliate (il rinnovo biennale ha di fatto impedito ad altri grandi giocatori di arrivare ai Lakers), errori da parte della società (troppo immobilismo sul mercato) e anche la rottura del tendine d’Achille il 12 aprile 2013 (l'infortunio al ginocchio e poi alla spalla) non hanno permesso a Kobe di conquistare l’agognato sesto anello, proprio come MJ, proprio come lui stesso aveva sempre desirato. «Va bene così, non sono triste, ma grato» ha quindi ripetuto in questi ultimi tempi il 24 in gialloviola in riferimento proprio alla possibilità di non riuscire a vincere ancora un titolo, perché l’importante è stata la consapevolezza di aver dato tutto senza risparmiarsi e questo, neanche il più acerrimo critico di Bryant glielo può negare.

IL RUOLO DI WEST E KUPCHAK - Certamente un uomo fondamentale nella crescita e nel successo di Kobe Bryant è stato Mitch Kupchak, attuale gm dei Los Angeles Lakers. Tutti, ovviamente, ricordano Jerry West, stella gialloviola degli anni '60 e '70, uno dei più grandi giocatori della storia, e poi dirigente che fece di tutto per portare Kobe a Los Angeles. Il loro rapporto d'amicizia è conosciuto da tutti e lo stesso Bryant lo cita spesso come punto di riferimento per la sua crescita umana e professionale (con Michael Jackson, Michael Jordan e Bill Russell). Sì, Mr. Logo (lo chiamano così perché il logo della Lega riprende proprio la sua “silhouette”) ha avuto un ruolo centrale nella carriera di Bryant.

L'EFFETTO FARFALLA - Ma nel gioco del destino, nelle ramificazioni incredibili che si determinano nella vita, Kupchak non può essere ignorato. Dopo l'addio di West diventa lui l'uomo guida dei Lakers e i cinque anelli di Bryant sono anche merito suo. La cosa davvero interessante, riportata anche solo qualche giorno fa da “Usa Today”, è che tutto iniziò nel 1981 (81, numero che ritorna spesso nella carriera di Kobe). È il 19 dicembre, Bryant aveva solo 3 anni all’epoca e durante una sfida tra Lakers e Clippers (allora San Diego, nda) Kupchak, giocatore dei Lakers, si ruppe il ginocchio in uno scontro di gioco. L'ala di 206 centimetri non tornò più quello di un tempo e dopo qualche anno fu costretto al ritiro. Da allora, proprio dopo quell'infortunio di gioco, si dedicò solo alla carriera da dirigente fino a diventare gm dei Lakers e a contribuire negli anni ai successi della franchigia della famiglia Buss. Senza quell'infortunio, senza la rottura del ginocchio di Kupchak, la storia sarebbe cambiata, sarebbe stata diversa: per lui, per i Lakers e forse per Bryant. E lo scontro di gioco di Mitch fu con Joseph "Joe" Washington "Jellybean" Bryant, il papà di Kobe. Il karma, l'effetto farfalla o forse semplicemente il destino. Kobe doveva diventare Kobe.

SI CHIUDE UN'EPOCA - In ogni caso, di sicuro, oggi è un giorno triste per il basket. Bryant dice addio e negli scorsi giorni sul suo sito ha pubblicato 20 immagini per 20 anni di carriera (ve le abbiamo riproposte e le trovate in questo articolo spiegate bene). Per chi lo ha seguito dal 1996, per chi non ha perso neanche una sua partita, sono fotografie che fanno un certo effetto e lasciano un groppo in gola. Sono 20 scatti davvero significativi. Sono immagini di una vita passata con la palla in mano. Una mini macchina del tempo, insomma, che lascia sbigottiti ma allo stesso tempo consapevoli di aver visto la storia scorrere davanti ai propri occhi.

HEROVILLAIN - Il “Black Mamba” scrive: «Nessun eroe è perfetto e nessun cattivo è completamente privo di senso eroico. Tutti noi conviviamo con queste due realtà. Quello che distingue i grandi è su come utilizzano il “lato oscuro” dentro per compiere gesta epiche. È vivere come un "HeroVillain” che incanala la paura, il rifiuto, la rabbia e il dubbio e li trasforma in forza, coraggio, potenza e determinazione. Questi 20 momenti attraverso 20 anni illustrano come ho usato il mio “lato oscuro” per lasciare si spera un segno duraturo su questo gioco».

CI MANCHERAI - Altri campioni daranno lustro a questo gioco, su questo non ci sono dubbi, altri fenomeni (sta già avvenendo con James e Curry) ci faranno stropicciare gli occhi con giocate che renderanno spontaneo il salto sul divano, ma la certezza di non vedere più l’ex numero 8, oggi per l’ultima volta 24, sui parquet americani è una realtà davvero difficile da digerire. C’è quasi la certezza che uno così, esattamente come accaduto per MJ, non si rivedrà mai più in campo. Si chiude un’epoca, ma con la certezza che il testimone verrà presto raccolto da altri campioni. “Life goes on” cantava 2Pac, ma oggi è più dura accettarlo. Ci mancherai Kobe.


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