Petisso, una vita da campione

Abbasso il calcio complicato e viva l’allegria, questo il messaggio d’una vita da campione del Petisso. «Sì, perché il calcio è divertimento»
Petisso, una vita da campione© ANSA
Francesco Marolda
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ROMA - La prima cosa che ti viene in mente è che non è possibile. E non vuol dire che già da parecchio non fosse più tanto giovanotto e neppure che per settant’anni e passa avesse chiesto ai suoi polmoni di resistere al fumo delle sigarette. Nossignori: l’idea che il sorriso, l’arguzia, i racconti divertiti del Petisso non facciano più parte della nostra vita e della nostra storia di pallone la mente, ma soprattutto il cuore, la rifiuta.

"Mi hai promesso di venire a casa e invece da quando mi sono trasferito non sei mai venuto". "Prometto, Petisso, appena finisce il campionato…". E invece l’ultimo dribbling è andato come è andato. E manco gli ha dato il tempo di vedere come finisce questa stagione azzurra. E sì che ci teneva, il Petisso. Che però aveva una certezza: "Vedrai, alla fine il Napoli andrà in Champions. Perché lo merita, certo, ma anche perché ha culo. In questo De Laurentiis e Benitez sono due maestri". E giù risate. Perché sino alla fine Pesaola il gusto dell’ironia e della battuta non l’ha mai perduto.

Un napoletano nato per caso in Argentina, il Petisso. Un "piccoletto" che all’inizio di carriera aveva giocato nel River con Alfredo Di Stefano e Renato Cesarini allenatore e che si ritrovò con gli occhi luccicosi quando alla fine del 2009, vinto un altro dribbling difficile col solito "nemico", Napoli lo volle suo cittadino ufficialmente. Cittadino onorario, si capisce. Una cerimonia semplice. Intima. A casa sua la consegna di quella pergamena. Lui sulla sedia a rotelle da quando le gambe l’avevano tradito, e accanto e intorno alcuni degli amici e degli allievi di una vita: Luis Vinicio, Antonio Juliano, Enzo Montefusco, Faustinho Canè, Sandro Abbondanza (tutti nella foto di quel giorno).

E poi le ore passate sul balcone con vista sul mare che guarda Nisida e Pozzuoli. Là dove, a mezza via, un mucchio di spazio se lo prende il San Paolo con la sua orripilante copertura. Ma non importava. Per il Petisso quel che contava era dare di tanto in tanto uno sguardo fuori e trovare là lo stadio. Ed erano anche quelli momenti di ricordi e sentimenti. "Io, Vinicio e prima ancora Sallustro ed Innocenti: pur senza mai dimenticare dove siamo nati, siamo arrivati qua e non siamo più partiti. Perché? Perché siamo sudamericani. E sudamericani e napoletani sono simili. Anzi, sono uguali".

E poi quell’insofferenza per le tante brutte invenzioni del pallone. Per i tormenti e gli interessi. Per gli scandali e gli imbrogli. I tatticismi esasperati e le rose tanto larghe. Perché lui, nel ’69 a Firenze lo scudetto lo vinse con tredici giocatori e con quelli poi giocò pure in coppa dei Campioni. Anni felici anche quelli viola. Macchiati però dal furto del suo cappotto di cammello. Quello che da sempre era stato il suo portafortuna: un giorno tornò nello spogliatoio della Fiorentina e non c’era più.

Insomma, abbasso il calcio, complicato e viva l’allegria, questo il messaggio d’una vita da campione del Petisso. "Sì, perché il calcio è divertimento. Ma secondo te, Maradona avrebbe mai potuto fare quel che ha fatto con una faccia triste?".

 


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