Zoff: «Berlusconi, Bearzot e Totti. Vi svelo tutto»

Dall’attacco del Presidente del Consiglio alla lealtà dell’amato ct, dal cucchiaio con l’Olanda alla Lazio: SuperDino non finisce mai
Zoff: «Berlusconi, Bearzot e Totti. Vi svelo tutto»
Walter Veltroni
22 min

ROMA - Dino Zoff appartiene a quel tipo di italiani di cui speriamo non si perda mai lo stampo. Se parla di calcio, ricorda tutto e non finirebbe mai, si commuove quando pensa a due come lui, Bearzot e Scirea. Gente seria, di poche parole, con al centro del cervello e del cuore, quella parola, “responsabilità”, che farà da guida anche al nostro colloquio. Prima di commentare il grido di allarme di Conte, come prima di Prandelli, sulla non adeguata considerazione della Nazionale, Zoff mi ricorda quello che disse una volta a un suo giocatore che diceva di essere stanco... «Tu ti senti stanco? Dici che non ce la fai più? Pensa ai militari che tornavano dalla Russia a piedi per migliaia di chilometri, nel fango e nella neve. Sai perché ce la facevano? Perché avevano la testa e il coraggio, le due cose che servono sempre nella vita». Ecco, così è Dino Zoff, mito dello sport italiano e persona schietta. Anche quando parla degli azzurri. «No, il deserto non lo vedo. Certo ha perso centralità. Travolta, anche mediaticamente, dalle rutilanti campagne acquisti e, soprattutto, dal fatto che molte squadre, anche le più blasonate, hanno in formazione, ormai, due o tre giocatori italiani, quando va bene. E poi c’è una tale offerta tv di calcio che se la Nazionale non gioca con una grande...».

Per i tedeschi, oggi, la squadra più importante è la Nazionale. Per gli italiani credo sia il club per il quale si tifa.

«Sì, lo temo anche io. Sa, ai miei tempi, i giocatori che arrivavano in azzurro erano i protagonisti assoluti dei propri club. Ora molti convocati passano gran parte del campionato in Parla il mito dello sport italiano, portiere campione del mondo nell’82, allenatore presidente, esempio di stile panchina e bene fanno i ct a denunciarlo. Appena diventai allenatore della Nazionale riunii i giocatori al centro del campo. Dopo i primi convenevoli feci loro una affermazione dura, forse inaspettata per chi mi conosce poco. Dissi loro “Voi, nelle vostre squadre, non contate un c... A parte Totti. L’unico modo di diventare primi nei vostri club è esplodere in Nazionale ». Furono sorpresi ma capirono. Gli avevo parlato duro ma chiaro, come faceva con noi Enzo Bearzot».

Come è diventato il calcio, oggi?

«C’è una esasperazione mediatica eccessiva. Non si va dietro ai numeri. E invece sono molto importanti. I risultati che hai raggiunto, le partite vinte e perse, i gol, i passaggi etc. Non è che, siccome ti hanno inquadrato da dieci posizioni diverse, con un colpo di testa ben fatto diventi Pelè. Questo vale anche per gli allenatori. Quanti ne abbiamo visti, personaggi bravi in tv, che poi non hanno fatto nulla con le loro squadre? Quando sento dire, come un titolo di merito, che durante una partita hanno cambiato tre schemi di gioco io, che sono un semplice, penso che almeno due erano sbagliati».

E cosa le manca del calcio dei suoi anni?

«Mi mancano comportamenti meno esasperati. Mi piacerebbero meno creste sui capelli e più lanci di quaranta metri o dribbling riusciti. Meno scene quando si prendono i colpi. Mi indignano i balletti dopo i gol, è una mancanza di rispetto per l’avversario. Se li avessero fatti ai miei tempi dubito che avrei fatto 330 partite senza mai essere espulso. Mi sembra che la telecamera ormai sia diventata più importante del campo».

Come cominciò, nel suo paesino in Friuli?

«Mi scambiavano per lo scemo del villaggio. Non pensavo che al calcio. Da quando avevo cinque anni ho cominciato a giocare in porta. Non so perché volevo stare in quel ruolo. Non avevo idoli o modelli, la prima partita in tv l’ho vista di straforo nel 1954. I grandi mi facevano giocare con loro, sapevano che ero bravino. Ma ero molto timido e ogni tanto mi facevano un po’ di bullismo, per esempio mi tiravano sempre dal lato in cui c’era più fango. Perché c’era tanto fango, dove giocavamo noi».

Ci pensi bene, perché sentì di fare proprio il portiere?

«Me lo sono sempre chiesto. Ma in fondo è quello che più mi assomiglia, caratterialmente. Il portiere ha una immensa responsabilità, è l’unico che non può sbagliare. E però di quella responsabilità, se è bravo, conosce la gloria. E io sono cresciuto in una terra di tradizioni asburgiche. E tutti noi, nobili o contadini, eravamo educati alla precisione, alla serietà. I bambini avevano solo doveri. Ma assolti quelli potevamo giocare. I miei genitori erano severi, ma se io facevo il mio dovere potevo usufruire di grande libertà. Così passavo anche sette o otto ore a giocare al calcio in cortile. Quando sento oggi i genitori dire che portano il figlio a Trigoria o non so dove per giocare penso sempre che la migliore scuola calcio è la villa comunale o il cortile».

Mi parla dei suoi genitori?

«Erano due persone straordinarie. Quando si vive la vita che io ho vissuto si resta con la sensazione di non aver dato loro quello che meritavano. Anche nella fase finale della loro vita, se ne sono andati a un mese di distanza dopo aver vissuto sempre uniti. E anche quando stavano male hanno affrontato al sfida più difficile con la cura di non pesare sugli altri. Mio padre partì per l’Abissinia a metà degli anni Trenta, tornò squassato da una nefrite e poi si fece l’Albania, la Jugoslavia e, con l’otto settembre, i campi di lavoro in Germania. E’ stato contadino fino in fondo. Io penso, oggi di aver fatto certo una bella vita, piena di successi ma lui ha vissuto tutto il tempo con la natura, si è intrecciato con le stagioni, con il mutare delle giornate, con l’andamento del raccolto. Mio padre era severo con se stesso. Si infuriava se non venivano rispettate le bestie o le piante. Una volta, mentre lo aiutavo, col cavallo calpestammo una pianta e lui alzò l’aratro infuriato. Per lui la natura era viva, perché lo faceva vivere».

La sua prima maglietta?

«Fu una canottiera sulla quale mia madre cucì un numero di stoffa. Lo ricordo ancora. Era un numero uno, rosso».

Lei non ha mai amato le magliette sgargianti. Al massimo si concesse un verde.

«Sì, ma per la ragione che le dicevo prima. A me non importava della foto o dell’immagine tv. Io mi occupavo solo del campo. Diversamente dagli inglesi che pensavano che la maglia gialla attirasse l’attaccante, infatti Banks la usava molto, io mi ero convinto che non dovessi dare punti di riferimento ai tiri avversari e che perciò nero, grigio o beige, in Nazionale, fossero l’ideale».

Torniamo ai suoi inizi. Esordisce nell’Udinese a 19 anni con un micidiale cinque a uno subito dalla Fiorentina. Avrebbe atterrato un bufalo. Era emozionato?

«Emozionato no. Posso aver paura, l’ho avuta fino alla finale dei mondiali. Ma quando stavo tra i pali sentivo soprattutto responsabilità, la parola chiave della mia vita».

Poi passò al Mantova, doveva sostituire un gran portiere, William Negri detto “carburo” perché aiutava la mamma in una pompa di benzina.

«Sì, Negri andò al Bologna e in cambio arrivò Santarelli, portiere storico dei felsinei. Io ero il secondo portiere, troppo giovane per essere il primo, anche se Bonizzoni, l’allenatore, mi aveva voluto con sé. Le racconto questa: a quei tempi si davano undici premi partita ai titolari e altri tre o quattro che venivano divisi tra gli altri giocatori della rosa. Santarelli un giorno mi chiamò e mi disse “Senti, facciamo così, noi portieri, mettiamo i nostri premi in un fondo unico e poi lo dividiamo a metà”. Io fui onorato e colpito da tanta generosità. Solo che aveva visto lungo lui, non io. Infatti giocai 30 partite io e quattro lui. Si faccia un conto chi ci guadagnò da quell’accordo...».

Lei era in campo in quel Mantova-Inter del 1967 che, con la papera di Sarti, decise lo scudetto a favore della Juve.

«L’Inter veniva dalla sconfitta in finale di Coppa dei Campioni con il Celtic. Nel primo tempo meritava ma io feci gran parate e l’arbitro Francescon fu generoso su un fallo in area ai danni di Mazzola. Poi ci fu quel tiro sbilenco di Di Giacomo e il clamoroso e singolare infortunio di Sarti, gran portiere. Era destino. Come forse era destino che io andassi alla Juventus. Pensi che nel 1962 giocavo con l’Udinese contro i bianconeri e mi ero messo, al solito, la mia maglia nera. Ma quel giorno anche loro erano vestiti in nero. Così fu Vavassori, portiere di riserva dei bianconeri, a dare al suo avversario la maglietta bianca con la v nera. Destino».

Dal destino alla delusione, quale è stata la più grande della sua carriera?

«La finale di Coppa dei Campioni. Erano tutti convinti che sarebbe stata una passeggiata, una pura formalità. Chi gioca davvero sa che non è mai così. Infatti in campo dormivamo, non abbiamo fatto nulla. Quando Magath segnò, non da trenta metri come fu maliziosamente detto, ma dal limite dell’area, non ci fu reazione. Eravamo come ipnotizzati».

Nello spogliatoio che successe?

«Silenzio, fu una specie di dramma collettivo. Non si sentiva volare una mosca. È così fu anche sul pullman, in aereo. Nessuno poteva recriminare, non eravamo esistiti. Ed avevamo una delle squadre più forti che si fossero mai viste. Otto campioni del mondo più Platini, Boniek, Bettega. Scusate se è poco».

Si ricorda litigi nello spogliatoio da giocatore o da allenatore?

«Da allenatore no. Se fai litigare i tuoi giocatori tra loro puoi cambiare mestiere. Da giocatore qualche volta, normali conflitti personali, di ruolo, di leadership. Ma, vede, mi fa imbestialire quando leggo che un calciatore dice abbiamo vinto perché eravamo amici. Perché, se non volevi bene all’attaccante non gli passavi il pallone? Ci si dimentica che questo è un lavoro, per il quale si è pagati bene, che si fa per i tifosi, per la maglia. E soprattutto perché è il tuo dovere, la tua responsabilità. Lo vede? Torna sempre questa cavolo di parola, nella mia concezione dello sport. E della vita».

E con Boniperti che rapporto aveva?

«Stare alla Juve era come lavorare alla Fiat. Risultati, ordine, disciplina. Boniperti di calcio capiva, pensi a come compose, pezzo a pezzo, quello squadrone: prendendo dall’Atalanta Cabrini e Scirea e poi Tardelli dal Como. Nel mio libro “Dura solo un attimo, la gloria” ho raccontato come faceva le trattative per gli ingaggi. Nel 1976 noi avevamo perso una partita, decisiva per il campionato, a Perugia. Quando, a Villar Perosa, entrai nel suo ufficio aveva incorniciata la foto dei giocatori della squadra umbra. Mi chiese, indicandoli ad uno ad uno, “Avete perso con loro, vorrete mica lo stesso ingaggio dell’anno scorso?”. Lui cominciava queste sessioni dal mattino, in ordine alfabetico. Io quindi ero sempre l’ultimo e poi lui non aveva grande considerazione per i portieri. Ma un anno decisi almeno di vendicarmi. Avevo trent’anni e non volevo farmi trattare come un pivellino. Il mio turno arrivò verso le dieci. Lo tenni fino alle due di notte. Soldi non se ne videro, ma almeno la soddisfazione me la tolsi».

Lei non era appassionato dei tuffi, non era un genere che le piaceva.

«No. Ero sempre alla ricerca, da portiere, della semplicità. E della perfezione, che però non ho trovato. Cercavo di supplire con il piazzamento alla teatralità di un tuffo ad angelo. Io ero amico di Castellini, che era un portiere a cui piaceva volare. Ma lui si librava in volo e poi la palla la prendeva. Non come certi esteti che amano più la foto della parata. Pensi che una volta, all’Olimpico, durante un Inghilterra- Italia mi fecero un tiro che necessitava di un tuffo plastico per prendere la palla. Mi ricordo che, mentre ero in volo, già mi vergognavo».

Chi sono i migliori portieri di ieri, oggi e domani?

«Abbiamo avuto una scuola fantastica. Albertosi, Vieri, Castellini e il non sufficientemente ricordato Fabio Cudicini. Eravamo, per qualità e numero, i migliori del mondo. Oggi Buffon. Domani vedo Perin e Sportiello. Ma la scuola si è inaridita. I club continuano ad acquistare portieri stranieri... Sono arrivati persino tanti portieri brasiliani. Per usare un eufemismo potrei dire che erano bravissimi in tutto ma il Brasile non è mai stata la patria dei numero uno. Adesso dicono che è importante che un portiere sappia giocare con i piedi. Vero, certo. Ma se chi gioca in porta può farlo con le mani e gli altri con i piedi, una ragione ci sarà...».

Come si para un rigore?

«E chi lo sa? Io c’erano periodi in cui li paravo e altri in cui non c’era niente da fare. Devo confessare che non si studiava tanto, ci si affidava all’istinto. Ricordo una volta, col Bologna. Il Trap mi aveva detto che il rigorista rossoblù tirava sempre a sinistra. Purtroppo ci fu proprio un penalty contro di noi e quello si avvicinò al dischetto. Io volevo buttarmi a destra ma pensai che se poi lo avesse tirato a sinistra il Trap mi avrebbe sgozzato. Allora feci come diceva il mister. E quello, ovviamente, tirò a destra. Mi alzai come una furia e gridai verso la panchina “Maledetto te e io che ti sto a sentire, non mi dire più niente”. Se ci fossero state le telecamere di oggi sarebbe diventato uno scandalo nazionale. Comunque il Trap, da quella volta, non mi disse più nulla».

Parliamo dei suoi primi mondiali, quelli del ’70.

«Sono sincero, ho un ricordo poco simpatico. Ero stato campione d’Europa nel 1968, avevo fatto gran parte delle qualificazioni da titolare. Ma in Messico stetti in panchina. Avevo perso il posto, insieme a Sandro Salvadore, in Spagna dove pareggiammo con due autoreti di Salvadore stesso. Fu scelto Albertosi, non la presi bene. Eravamo agli antipodi, come carattere. Non è che ci volevamo bene. Italia- Germania, diciamoci la verità, fu una brutta partita fino ai supplementari, che furono epici. Poi la squadra un po’ si sedette, in fondo, si diceva, siamo arrivati fin qui...».

E la staffetta non fatta tra Mazzola e Rivera che giocò solo gli ultimi sei minuti?

«Io credo che fu un caso. Sinceramente Valcareggi aveva perso un po’ il controllo dopo la gragnuola di gol dei brasiliani, che erano stellari. Tanto che chiese a Juliano di scaldarsi senza rendersi conto che aveva finito le sostituzioni. Alla fine del primo tempo pareggiavamo e credo che lui abbia avuto paura di alterare la squadra. Mi ricordo il ritorno a Roma, con Valcareggi scortato dalla polizia e gente inferocita. Com’è il calcio! E com’è l’Italia! Solo una settimana prima erano tutti in piazza a festeggiare, dopo la Germania, gli “eroi dell’Azteca”.

Poi ci fu la catastrofe del 1974.

«Anche lì erano tutti convinti che fossimo fortissimi. Io avevo la porta inviolata da una vita. Un giocatore haitiano, Sanon, mi infilzò alla prima partita. E io non me lo perdono ancora. Ma in quella spedizione erano troppi a decidere. C’erano Carraro, Allodi, Franchi... Ricordo che, annusando l’aria, dissero solennemente che alla prima polemica il responsabile sarebbe stato cacciato. Ovviamente non successe, neanche dopo che Chinaglia aveva mandato a stendere l’allenatore. Altro che polemica, quella squadra era spaccata, divisa, in conflitto permanente. Ricordo che Allodi, in un viaggio in treno verso Stoccarda, ci riunì tutti e ci ammonì paternamente “Noi dobbiamo stare uniti, dobbiamo dirci tutto, dobbiamo essere sinceri”. Detto fatto. Per primo parlò Juliano che disse “Allora sono sincero, il cinquanta per cento della squadra non vuole Rivera in campo”. Gelo, riunione sciolta e spedizione fallita».

Veniamo al suo mondiale più difficile, quello del ’78. I famosi tiri da lontano con l’Olanda...

«Guardi, sono sincero. Il tiro di Brandts era imprendibile ma su quello di Haan potevo fare di più. Le ho detto che la perfezione non l’ho trovata...».

Veniamo al 1982, il trionfo. Quando lei leva in alto quella Coppa e l’Italia esplode di gioia.

«Guardi non posso parlare di quel mondiale senza rendere, in primo luogo, omaggio a Bearzot. Era una persona coraggiosa, leale. Quando ti diceva una cosa era quella. E te la diceva in faccia, non passava attraverso i giornalisti. Non gli piaceva certa gente che ruotava, anche a livello dirigenziale, attorno alla Nazionale. Per due anni non portò mai la Nazionale a Coverciano. Era una persona limpida, se c’era una pallottola in giro lui metteva il suo corpo davanti, un vero comandante».

Fu lui a consigliarvi il silenzio stampa?

«No, lui era istituzionale e non gli piacevano gli strappi. Fummo noi. Ci eravamo stufati. Avevano scritto follie sull’omosessualità tra noi giocatori, avevano detto che ci eravamo rifiutati di andare a promuovere una ditta italiana perché non ci avevano regalato gli orologi. Tutte invenzioni, che si aggiungevano, ma questo è ancora legittimo, a giudizi irridenti delle nostre capacità, dopo il girone eliminatorio. Poi cominciammo a vincere e diventammo, ovviamente, la più forte squadra del mondo. Insomma decidemmo il silenzio stampa, e io, proprio io, dovevo parlare in conferenza stampa ogni giorno. Quando aprivo bocca i giornalisti italiani se ne andavano per protesta. Questo era il clima, fino alla partita con l’Argentina».

Quel mondiale, per molti di noi, è anche la sua parata sulla riga all’ultimo minuto.

«In quell’istante mi è apparso di tutto. Ma la paura più grande era che l’arbitro vedesse male. La giudicasse dentro la porta. Per questo saltai in piedi urlando che era sulla riga. È stata la parata più importante della mia vita. Fu una gioia indescrivibile. Baciai persino Bearzot e tutti e due poi ce ne vergognammo. Alla premiazione ero in uno stato di gloria. Cercai persino di baciare la regina, cosa non proprio protocollare. In aereo con Pertini giocammo la famosa partita. Lo scopone è un grande parificatore sociale. Ricordo, con la Juve, che una volta il massaggiatore de Maria, che era un vero professionista, insultò sanguinosamente il Trap che aveva sbagliato a calare una carta. Pertini si infuriò perché perdemmo. Ma tempo dopo ricevetti un suo telegramma nel quale si incolpava della sconfitta. Ci aveva persino ripensato. Al Quirinale disse che voleva al fianco, a tavola, Bearzot, me e la squadra e che ministri e dirigenti potevano anche andare al ristorante».

Poi, della Nazionale, divenne allenatore...

«Esperienza bellissima, giocavamo un bel calcio. Arrivammo in finale agli europei del 2000. Io ero figlio di Bearzot, parlavo poco, non facevo la formazione e le tattiche con i giornalisti. Insomma, facevo più fatica, nel rapporto con la stampa. Ma potevamo e dovevamo vincerlo quell’Europeo. In finale abbiamo avuto molte occasioni. Avevamo avuto fortuna con l’Olanda, quando Toldo fu bravo e Totti fece il cucchiaio. Che io approvai, per me era importante solo che la mettesse dentro».

Ma dopo quella partita il Presidente del Consiglio Berlusconi la attaccò e lei diede le dimissioni, gesto non frequente, a nessun livello, in questo paese.

«Le critiche le ascolto tutte, non sono un integralista, non ho inventato io il calcio. Ma fu usato il termine “indegnità” e io questo non lo potevo accettare, anche perché era stato pronunciato da chi aveva alte responsabilità pubbliche. Così mi dimisi. Fu un gesto “rivoluzionario”, inusuale e che ho pagato. Ma tutti parlano di etica solo quando concerne gli altri. Quando riguarda te è più facile far finta di niente. Io non ne sono capace».

E la sua esperienza alla Lazio?

«Fu bellissima. Sono stato allenatore e presidente e le due cose insieme. Tornammo dopo quindici anni in Europa e posso dire che in quegli anni la squadra fece il salto, diventò una grande. Ho un rimpianto nel 2001, quando presi la squadra a dicembre dopo Eriksson. Facemmo una rincorsa meravigliosa e se non avesse segnato al 92’ Dalmat in una partita in campo neutro con l’Inter, noi avremmo conteso lo scudetto alla Roma. Signori era un giocatore fantastico e mi dispiace quello che è accaduto in questi mesi. E poi c’era Gascoigne, genio e disperazione. Sembrava un jazzista, aveva un talento sconfinato unito a un’ansia di autodistruzione».

Come vede il campionato? E la Lazio?

«Sarà una lotta vera, quest’anno. Con la Juve, ci sono Inter, Roma e altre. La Lazio deve stare attenta al rischio, che c’è sempre in questa città, capace di volare sulle ali dell’entusiasmo e la settimana dopo di sprofondare nella disperazione. Forse era troppo l’anno scorso, forse è troppo ora. Nel calcio occorre tempo, sempre».

Anche a lei chiedo la sua formazione ideale di tutti i tempi.

«Jascin, Burgnich, Beckenbauer, Scirea, Cabrini; Valentino Mazzola, Di Stefano, Platini; Garrincha, Pelè, Riva».

Allenatore?

«Che domanda... Bearzot. Che la farebbe giocare all’italiana. Lui diceva sempre che avevamo, nella nostra cultura calcistica, un dna preciso e che non dovevamo snaturarlo diventando, di volta in volta, olandesi, brasiliani o non so che. Era un italiano orgoglioso di esserlo».


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