Calcio, Veltroni intervista Gentile: «Con Maradona non fui così cattivo»

Uno dei nostri campioni del Mondo dell'82: «La fuga dalla Libia a 8 anni, l’arrivo al Nord, poi ecco il calcio e così finisco alla Juve in cambio di motorini per frigoriferi»
Calcio, Veltroni intervista Gentile: «Con Maradona non fui così cattivo»© Marco Rosi
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ROMA - Se le cose stanno come Claudio Gentile, uno dei nostri campioni del mondo, racconta, lui ha ragione. Se le cose non stanno così sarebbe bello che qualcuno della federazione dicesse come invece stanno. Questo giornale e chi scrive non hanno partiti presi ma solo il desiderio di contribuire a fare un calcio più onesto e più bello. È certo che Gentile è stato un ottimo allenatore della nazionale Under 21 e che da anni, per una querelle con la Figc, non siede più su una panchina. È stato un grande giocatore e ha una bella storia da raccontare. Una storia che inizia nella martoriata Libia, alla fine degli Anni Cinquanta. «Eravamo quasi ottantamila, noi italiani in Libia. Mio padre era arrivato nel 1928, faceva il muratore. Era uno dei tanti che lavorava nelle imprese di costruzione che stavano tirando su Tripoli».

Che impressione le fa vederla com’è oggi?
«Sono andato giù nel 2010 perché degli industriali volevano riattivare i rapporti con i libici. E mi ricevette il Presidente della federazione che voleva io allenassi la nazionale. Io ho dei filmati di quella visita. Sembrava la Costa Azzurra. Tripoli era bellissima. Era stata costruita da occidentali e si vedeva. Aveva una magia proprio per l’intreccio di cultura urbanistica e architettonica di nostro stampo con l’ambiente e i colori della terra di Libia. Quando vedo quelle immagini mi viene il magone e se poi le raffronto a ciò che viene trasmesso dalle televisioni oggi mi si stringe il cuore. Vedere case e cose distrutte, pensare a quanti soffrono innocenti e che gran parte del lavoro di quelle generazioni di lavoratori italiani è ormai solo un cumulo di macerie mi fa male».

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Com’era giocare a calcio in Libia alla fine degli anni cinquanta?
«Io giocavo in un oratorio italiano, quello della chiesa di Sant’Antonio. Lì andavano i ragazzi italiani ma anche i libici. Che erano diversi da noi, a sette anni ne dimostravano il doppio. Studiavano ma, contemporaneamente, curavano il gregge, tenevano le pecore. Facevano un’altra vita, che li costringeva a diventare grandi prima. All’inizio si facevano delle grandi partite di italiani contro libici. Poi, saggiamente, il prete decise che era meglio mischiare le formazioni. Loro giocavano duro e si potevano creare situazioni difficili che poi magari si sarebbero protratte fuori dal campo».

Insomma il prete dell’oratorio tentò un esperimento di integrazione multiculturale…
«Sì, ma più che altro cercò di evitare un conflitto tra etnie. Comunque l’effetto calcistico della rude scuola dei miei coetanei libici, che non amavano perdere e che giocavano in modo ruvido, fu farmi capire come si sta in campo, come si affronta un avversario, qualsiasi avversario».

Si ricorda quando andò via dalla Libia?
«Era il 1961. Mio padre cominciò a vedere che l’atteggiamento degli arabi verso le donne italiane stava cambiando, c’era minore rispetto. Otto anni dopo, con il colpo di stato, furono cacciati gli italiani. E pensare che Gheddafi, allora, era un semplice militare che aveva una 128 alla quale, nella filiale della Fiat, mio zio faceva il tagliando. E poi cacciò tutti…».

Si ricorda l’ultima immagine della Libia?
«Sì, avevo otto anni nel 1961. Papà ci aveva convinto che era giusto andare via. Aveva ragione lui. Se avessimo aspettato il 1969, come gli altri, ci avrebbero confiscato tutto. E quel momento, sulla nave che si staccava dal porto, me lo ricordo come fosse ieri. Mio padre aveva vissuto lì trentantatrè anni. Ricordo i miei genitori, sul ponte del traghetto che ci riportava a Siracusa, piangere come bambini. E io con loro. Mi ricordavo i giorni sereni, quando i libici insegnavano a mia mamma a fare il the e lei spiegava a loro come cucinare la pasta».

Come fu il ritorno in Italia?
«Tornammo in Sicilia, a Noto. Ma restammo poco, non era tempo in cui fosse facile lavorare nella nostra terra d’origine. Andammo a Como dove uno zio si era già trasferito. Papà trovò lavoro in una impresa di costruzioni. Era un gran lavoratore. Il sabato e la domenica andava a casa della gente a fare riparazioni. Eravamo cinque figli. I miei ci fecero crescere con dignità, nulla di più e nulla di meno».

E col calcio? Come riprese?
«Era la mia passione. venne a vedermi un osservatore del Como. Mi fecero fare una selezione e mi presero. Ma c’era un problema. Il Como non mi pagava il costo del viaggio in funicolare per andare da Brunate al campo di allenamento. Mio padre mi disse “ O ci vai a piedi o smetti”. Un po’ andai a piedi, ma arrivavo che ero morto di stanchezza. Allora cominciai a giocare nel più vicino Maslanico. Lì mi videro quelli del Varese: feci il provino con altri tre ragazzi. Vitali, che era il direttore sportivo, non era convinto. Disse al presidente del Maslanico: “Il morettino non lo prendiamo, gli altri tre sì”. Allora quello, di rimando: “Non si preoccupi li prenda tutti e quattro, glieli do al prezzo di tre”. Come un fustino di detersivo, come una offerta speciale, cominciai il mio viaggio nel calcio professionistico. Quando, dopo un anno nell’Arona, tornai nel Varese in serie B vinsi il premio come miglior giovane giocatore. Nonostante questo Vitali in me non credeva. Quando mi vendette alla Juve pensava di aver rifilato un bidone ai bianconeri».

Come fu l’impatto con Torino?
«La cosa divertente fu la modalità di pagamento dei 250 milioni, prezzo pattuito tra il Varese e la Juventus. Fui dato in cambio di una fornitura equivalente di motorini prodotti dalla Magneti Marelli per i frigoriferi della Ignis di proprietà dell’ingegner Borghi, presidente del Varese. Dopo l’offerta speciale tre per quattro anche lo scambio in natura…»

Per quale squadra tifava?
«Per la Juve, ci sono le foto di quando avevo otto anni a testimoniarlo. Ma a Borghi dissi che a Torino non volevo andare. Lì era pieno di nazionali, c’erano Spinosi, Marchetti, Morini, Salvadore… Rischiavo di fare solo panchina. Io volevo giocare. Mi avevano cercato Torino, Inter, Bologna, Fiorentina. Dissi a Borghi che semmai preferivo smettere. Lui mi portò a cena e mi convinse ad andare. Aveva ragione lui».

Come fu l’inizio?
«Benissimo. Il primo anno feci 15 partite. Giocavo terzino, mediano, ovunque mi mettessero. Disputai anche la finale della coppa Intercontinentale con l’Independiente, che perdemmo all’Olimpico per uno a zero. Io ero ragazzino, avevo venti anni. Gli argentini menavano, e mi menavano, come fabbri. A un certo punto Vycpalek, l’allenatore della Juve, mi urlò “Ragazzo, o ti dai una svegliata o qui esci male”. Per me fu decisivo, quel grido dalla panchina. Non me l’avesse mai detto. Mi sciolsi e cominciai a giocare con un sacro furore agonistico…».

Quella che si stava costruendo era una grande squadra.
«Il successo che ricordo con più piacere fu la Coppa Uefa del 1977. Eravamo tutti italiani. La nostra era una difesa fortissima, un centrocampo con Tardelli e Benetti, passare il quale non era consigliabile. L’attacco con Causio, Bonimba e Bettega. Vincemmo sei scudetti, due Coppe Italia, una Uefa e una Coppa delle Coppe. Un ciclo indimenticabile».

Maradona che cosa le diceva in campo?
«Lui non pensava che sarebbe stato marcato da me e in quel modo . In una amichevole prima del mondiale si era occupato di lui Tardelli che però partecipava anche molto alla fase di costruzione del gioco. Pensava di avere più libertà. Fummo ammoniti tutti e due, non solo io. Lui me ne diceva di tutti i colori ma io, che pure capivo l’argentino, non mi feci provocare. Voleva che reagissi. Ma non sono caduto nel tranello».

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