Rivera: «Alla mia vita do un bel 10»

Nell’aprile del 1958 l’esordio. Ora racconta se stesso in un libro di foto e parole: «Sono stato felice, ai giovani dico: non smettete mai di divertirvi»
Rivera: «Alla mia vita do un bel 10»© LaPresse
Marco Evangelisti
3 min

ROMA - Pasqua veniva d’aprile, Gianni Rivera non aveva ancora quindici anni, erano appena entrati in scena la Comunità Europea, Volare di Modugno e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, in ordine di apparizione. Era il 1958, chiaro. Rivera, che adesso racconta in un libro quelle vicende di se stesso e tutto il resto che seguì, i tre scudetti, le due Coppe dei Campioni, il Pallone d’Oro, la prima famiglia e quella che venne più tardi, la scuola e la politica sportiva e non, men che ragazzino fu intercettato dal giocatore, capitano e allenatore dell’Alessandria, Franco Pedroni, e inserito in prima squadra. C’era un’amichevole con l’Aik di Solna, squadra svedese in ritiro primaverile. Non ci volle molto per il debutto in campionato: un annetto e qualcosa, 2 giugno 1959, Alessandria-Inter 1-1. «Non una grande prestazione, una partita normale», scrive Rivera in un appunto a mano che appare nel libro. Ammesso sgorgassero cose anormali dalla nitida fonte di gioco che lui stesso si è sempre considerato.

Rivera, lei che cosa ne dice?

«Ma sì, a me è apparso sempre tutto estremamente normale. Giocavo, mi divertivo. Lavoravo anche, ma di questo mi sono accorto in seguito. Conservo una memoria totale di quello che è accaduto nel calcio e che mi riguarda. Normale quella partita con l’Inter. Normale anche quella dell’anno precedente con gli svedesi».

Da ragazzino a giocatore senza mai essere matricola.

«Nell’Alessandria mi conoscevano tutti. Qualche sorriso, forse neppure quello, e dentro a giocare. Neanche mezzo scherzo o una presa per i fondelli. E seppure fosse accaduto probabilmente non me ne sarei accorto. Ero troppo soddisfatto di poter fare quello che desideravo e che mi piaceva, giocare al calcio. Vincemmo 5-1 e segnai. Seguivo l’azione, mi arrivò una bella palla, avrei potuto sbagliare ma non accadde. Ecco, se vogliamo si può annotare che quasi caddi dentro la porta. Ma non per l’emozione. Che cosa devo aggiungere? Quando giocavo provavo solo gioia e nient’altro di straordinario».

Mazzola-Rivera, i sei minuti che sconvolsero l'Italia

Prima partita, primo gol. Per un 10 come lei, che cosa significava segnare?

«Si va in campo per quello. E’ lo scopo del gioco, no? La squadra deve vincere e si vince segnando. Quando arriva il gol significa che quello che devi fare sta venendo bene. Potevo riuscirci io, poteva toccare a un compagno, ci si può arrivare per un’autorete. E’ lo stesso. A quanto sembra ero bravo a suggerire per gli altri. Ma sapevo che quando mi trovavo vicino alla porta era giusto provarci».

In che cosa il calcio di oggi è superiore a quello che conosceva lei?

«Ovvio, nei soldi che girano. Il denaro non è un male assoluto. Può anche essere usato bene, per qualcosa di utile. Alcuni giocatori lo fanno. Per il resto, ha perso valore perfino il numero 10 visto che oggi può indossarlo anche un portiere».

Leggi l'articolo integrale nell'edizione del Corriere dello Sport-Stadio in edicola


© RIPRODUZIONE RISERVATA