Veltroni intervista Reja: «Pasolini e Senna. La mia vita piena di gioia e pallone»

L'ex tecnico di Napoli, Lazio e Atalanta è andato via da casa a 16 anni, a 58 voleva smettere di allenare. E a 71 sogna una Nazionale: «Sono nato in mezzo ai vigneti, in una terra martoriata. Pane e sudore, ecco perché noi friulani siamo come struzzi»
Veltroni intervista Reja: «Pasolini e Senna. La mia vita piena di gioia e pallone»© LaPresse
Walter Veltroni
10 min

ROMA - Ho conosciuto Edy Reja al Quirinale, eravamo lì per una cena in onore del Presidente Sloveno. Mio nonno, nato a Lubiana, fu torturato a Via Tasso e il presidente aveva voluto rendere omaggio alla sua memoria. Reja era lì in rappresentanza degli sportivi friulani. Parlammo un po’ e scoprimmo di avere un amico in comune, Gianni Borgna, grande tifoso laziale e grande conoscitore dell’opera pasoliniana: proprio dal poeta di Casarsa, città friulana, comincia la conversazione con Reja. Uomo sensibile e sincero, non solo grande allenatore di calcio.

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Vorrei cominciare con Pasolini. Il suo ricordo?
«Sono passati un po’ di anni, eravamo giovani allora. Il nostro incontro è stato a Grado, i calciatori più o meno famosi all’epoca frequentavano quella spiaggia e lui veniva ogni anno. Lì c’era un campo dove la sera giocavamo al calcio. Pasolini era un’ala destra molto veloce, dotato anche tecnicamente, qualche volta lo marcavo e qualche sgambetto glielo facevo, per fermarlo. Ne ridevamo insieme. Insomma, era molto simpatico ed era un appassionato e un competente di calcio. A Grado c’erano le famose buche per le sabbiature e ognuno aveva la sua. Mi ricordo che lui stava sotto al sole, imperterrito, in questa buca. Non era facile, mi creda, perché erano temperature altissime della sabbia, 52-53 gradi. Lui stava così una mezz’ora, mi ricordo che c’era Ninetto Davoli che gli faceva un po’ d’ombra con l’ombrello e lui, cappellino in testa, passava il tempo leggendo un libro. La sera qualche volta si cenava insieme, parlando di calcio, solo di calcio».

Forse vi univa anche la comune origine friulana. Terra che ha prodotto gente coriacea, nello sport, come Bearzot, Capello, Zoff, lo stesso Pizzul…
«Per me la ragione sta nel fatto che questa terra è stata un po’ martoriata: ha conosciuto due guerre mondiali e noi friulani abbiamo vissuto sempre di particolari stenti, di grandi sacrifici. Abbiamo conosciuto grandi difficoltà anche dal punto di vista alimentare, perché dopo le guerre abbiamo avuto carestie, mangiare era una conquista. Non era tempo di merendine confezionate. Il pane si sudava. E allora l’educazione che ci hanno dato i nostri genitori è stata quella di considerare i sacrifici parte del nostro cammino nella vita. E’ vero, noi friulani siamo considerati gente di grande temperamento. Nello sport, per dire, tutti si spaventano per le critiche. Le critiche sono spietate sempre, ma a noi non ce ne frega niente, andiamo avanti. Mettiamo la testa nella sabbia come gli struzzi e andiamo avanti. Non sentiamo né critiche né niente, abbiamo solo ed esclusivamente un obiettivo: fare bene».

Cosa facevano i suoi genitori?
«Erano produttori di vino. Erano agricoltori, avevano dei terreni, e io ricordo che mio padre mi diceva sempre che voleva che io, unico figlio maschio, diventassi, come lui, produttore vinicolo. Era il suo sogno, il suo desiderio. Così non è stato perché andai via a sedici anni per giocare al calcio. Lui non voleva farmi partire, non voleva firmare il cartellino (allora a sedici anni si doveva avere l’autorizzazione dei genitori). Gli dissi che avrei provato un anno e se non fosse andata bene sarei tornato nei campi. Lui allora firmò. Dopo un anno, visto che facevo bene, avevo esordito in A con la Spal, mi ha fatto continuare. Così ho iniziato l’attività di calciatore e poi di allenatore».

Si ricorda il suo primo rapporto con il pallone da bambino?
«Il mio rapporto con il pallone era in primo luogo un desiderio. A Natale ricordo di aver scritto molte lettere a Gesù bambino perché mi portasse un pallone. Questo pallone dopo tre anni arrivò. Fu una gioia immensa, ogni giorno uscivo da scuola, venivo a casa, lanciavo i libri in camera e mi mettevo a palleggiare da solo. Quel pallone l’avrò calciato migliaia e migliaia di volte contro il muro. Il mio primo compagno di squadra fu un muro sbrecciato».

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Quindi lei giocava da solo all’inizio?
«All’inizio sì e devo dirle che mi è servito molto, per il controllo di palla, per la regolazione dell’intensità di tiro. Poi ho cominciato a giocare nel rione. Io sono di Lucinico, una frazione di Gorizia, dove le strade allora non erano asfaltate, erano ancora ghiaiose. La sera ci trovavamo tra ragazzi, spesso con un faro per far luce. Ricordo che giocavamo fino alle nove di sera, magari eravamo tre , e facevamo le porte con dei bastoncini o con dei sassi . Il primo calcio, quello più scomodo e più bello».

Si ricorda una volta in cui suo padre è venuto a vederla o le ha detto una cosa particolare, quando lei ha avuto successo?
«No, assolutamente. Mio padre non è mai voluto venire neanche ad una partita. Lui sentiva sempre la radio e mi ricordo che non usciva mai il lunedì, quando io perdevo. La domenica nessuno doveva venire a casa per disturbarlo, perché ascoltava le partite. Quando vincevo, lui usciva con gli amici e magari pagava anche il bicchiere di vino, perché tutti in paese si congratulavano e allora mio padre, lo so, era particolarmente felice e orgoglioso di me».

Come arrivò lei alla Spal di Paolo Mazza?
«Qui in regione c’erano delle prove della Spal, allora io giocavo nel San Lorenzo di Mossa. Vennero due osservatori e mi portarono subito a Ferrara. La settimana prima avevo fatto un provino anche alla Juventus. Era il periodo di Charles e di Sivori, mi ricordo che passeggiavano vicino a noi ragazzi che giocavamo e fu un’emozione bellissima. La Spal e Mazza decisero subito di prendermi e la settimana dopo arrivò a casa la comunicazione anche dalla Juventus che mi voleva. Ma io oramai avevo già preso l’accordo con la Spal e così, in quel gioco che sono le coincidenze della vita, cominciai la mia storia nel calcio, storia che dura da più di cinquant’anni».

Ha mai saputo quanto è stato pagato nel ’61?
«Penso centomila lire».

In quella Spal, che era una bellissima squadra, oltre a lei c’erano Capello e, se ricordo bene, c’era Oscar Massei, un grandissimo centrocampista.
«Massei per dieci anni è stato il nostro punto di riferimento, con me giocavano Capello, Dell’Omodarme, Bui. Erano giocatori importanti però Massei era un calciatore straordinario, dotatissimo sul piano tecnico ma soprattutto dal punto di vista umano. E ci voleva veramente bene, era uno che ci insegnava molto, un punto di riferimento».

Allora una squadra come la Spal era di primissimo livello...
«Eravamo forti, specie a centrocampo: c’era Massei, Micheli, e un ragazzo di Pieris che si chiamava Fabio Capello. Esordimmo insieme e lui dopo due anni andò alla Roma. In verità sembra che anche io fossi destinato in giallorosso, invece finii in rosanero, al Palermo. Mi ricordo che Fabio era in clinica, si stava operando di menisco, quando mi annunciò che la Roma mi aveva acquistato. Invece poi due giorni dopo venne fuori la notizia che avevano cambiato presidente e anche allenatore. E allora presi la valigia per la Sicilia».

Chi è stato l’allenatore più importante che ha incontrato da giocatore?
«Per me e anche per Fabio Capello è stato Giovan Battista Fabbri che era l’allenatore della Primavera, è stato un po’ lui il nostro maestro. Era un allenatore che potrebbe andare bene anche adesso perché aveva un concetto moderno del gioco. Ad esempio non voleva mai che il portiere lanciasse la palla con il piede, voleva che impostasse il gioco dalla difesa. Ci faceva giocare fino a notte fonda, non voleva mai finire, faceva delle partite interminabili di un’ora e mezzo al pomeriggio. Privilegiava la parte tecnica, quella atletica non l’ha mai curata in modo particolare. Da lui abbiamo capito che il calcio è in primo luogo talento, creatività, organizzazione».

Lei ha una carriera incredibile. Ho contato le squadre e le città che ha cambiato: sono ventisei...
«Ho girato tutta Italia, non so quali regioni mi manchino. Come le dicevo sono andato via a sedici anni da casa e finalmente sono ritornato adesso, dopo tanti anni. Sono praticamente più di cinquanta anni tra calciatore e allenatore e sono trentasei anni da allenatore. L’altro giorno ho fatto un conto: sono stato mille volte seduto su una panchina, non è una cosa trascurabile e ne sono orgoglioso. Ho deciso quest’anno di chiudere perché penso che il tempo mio sia arrivato, anche se ho ancora qualche richiesta. Talvolta sono stato tentato però ho detto no, adesso basta, chiudiamo e viviamo un po’ in serenità. Ma se mi dovesse arrivare la proposta da qualche nazionale...».

Leggi l'intervista completa sull'edizione odierna del Corriere dello Sport-Stadio


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