Alè, tutti sul carro

Alè, tutti sul carro© LAPRESSE
Giancarlo Dotto
4 min

Succede questo, che, all’improvviso, tutti pazzi per l’azzurro, il troppo azzurro che ha invaso pacificamente e allibito la Polonia oltre che noi stessi, infedeli un po’ per natura, molto per somma di prove. E dunque? Cosa siamo? Umorali, isterici, vacui assaltatori del carro che vince? Ballerine o salamandre che saltano da un dogma all’altro senza il minimo imbarazzo? No, semplicemente la scoperta dell’acqua che più calda non si può. Se non sei un tifosaccio di quart’ordine, un bottegaio che crede solo alla logica dell’incasso, i tre punti anche rubacchiati, ti rendi conto che nel tuo “tifare” per (ma anche contro) c’è una quota non banale di senso estetico, che io chiamerei spudoratamente sentimento.

Per anni siamo stati qui, anche con una discreta crisi di coscienza, a interrogarci sulla flessione del nostro amor patrio, partendo dal calcio e allargando il concetto, le menti più rovellate, all’atavica difficoltà di noi italiani a sentirci parte di una nazione, belluini invece, smodati, quando si tratta di campanile, al limite di sfiorare allo specchio il senso di colpa. E poi. Poi, basta una sera qualunque allo stadio Slaski di Chorzow, che è come dire per molti di noi un non luogo, che l’inatteso accade. Bastano novanta minuti di bel calcio giocato, palla a terra, quasi tutto nell’area avversaria, fermati solo dai moltiplicati miracoli di un portiere che nasce polacco ma diventa (grande portiere) italiano, per ritrovarci tutti, a esultare, senza sensi di colpa, fervidi amanti di questa maglia, che fino al giorno prima era uno straccio superfluo, che nemmeno l’inno mamelico riusciva a gonfiare. Anni somari azzerati di colpo, azzerato persino il povero Ventura, costretto a ricominciare con le orecchie d’asino, come Pinocchio, tra i mussi del Chievo per essere riuscito nell’impresa di combinare lo zero in profitto e quello in estetica.

Il gol di Biraghi, a tempo quasi scaduto, non aggiunge nulla a quanto si era visto e goduto, fondamentale solo per zittire le ottuse lingue che il giorno dopo avrebbero più blaterato la “mancanza di concretezza” che celebrato la pienezza di calcio, l’unica, vera concretezza per quanto mi riguarda, che il gol prima o poi arriva, esattamente come le conseguenze dell’amore.
Succede che Mancini, il cui manierismo nell’apparire a volte confonde l’intelligenza dell’essere, capisce che per ripartire dal caos c’è bisogno solo di una cosa, affidarsi a poche regole basiche. Che deve fottersene di tutto, dei moduli, delle gerarchie prestabilite, degli umori della gente. Mette fine all’esplorazione dell’esistente e sceglie ciò che esiste. Ciò che il campionato detta. Insigne, Chiesa, Bernardeschi, Biraghi, Donnarumma, Barella. Insiste con Jorginho e aggiunge Verratti. L’intuizione che vale l’Oscar è Barella, il ragazzo del Cagliari. Tecnica, anima, passione, testa. Due partite in azzurro e già indiscutibile. Astro e pilastro da qui ai prossimi quindici anni di chiunque lo avrà in sé e con sé. Mette insieme un gruppo di giocatori che, dando del tu alla palla, finiscono per darselo anche tra di loro. Gioiosamente. Insomma, fa il fenomeno nell’unico modo possibile, comportandosi da normale.

Continui così, il malinconico Bob, tenendo stretta la certezza che portando in giro per il mondo l’Italia che incanta giocando a pallone avrà portato a casa il più grande risultato. E, in caso di soprassalto dubbioso, si ricordi l’Italia di Bearzot. Non quella ovvia dell’82 in Spagna, ma quella del ’78 in Argentina. Non vinse nulla, ma tutti noi, buona parte di noi, gli siamo ancora grati. Del buon sapore che ha lasciato.


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