Di Bari, il ritorno in A di una calciatrice senza tempo

Vi raccontiamo la storia del difensore: 35 anni, romana, ex Nazionale, una vita alla Lazio, scudetti e coppe Italia, poi il Cassino in B e infine l'Acese, che ha portato in serie A domenica scorsa con largo anticipo sulla fine del campionato. Tra passato e presente, perché il futuro è alle porte ma lei lo lascia bussare
Di Bari, il ritorno in A di una calciatrice senza tempo
Valeria Ancione
11 min

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“Calciatrice?”. “Come sa che gioco a pallone?”. “Da come cammina, sembra sempre che stia per fare un cross”. Sarebbe successo questo se il grande Osvaldo Soriano avesse incontrato Daniela Di Bari. E lei sarebbe stata bene tra le righe di Futbòl, il libro di racconti di pallone dell’argentino. Lei non cammina, dondola, e se prende a correre, per una breve corsetta, saltella senza peso, a passi stretti, con le punte dei piedi verso l’interno e come se avesse le molle sotto le piante. Ma se scatta in campo è una furia. Ha una corsa disperata, con la falcata larga, il fiato da centometrista e il campo di calcio è una misura piccola, anche da porta a porta.
        Daniela Di Bari ha 35 anni, la quasi totalità passata appresso a un pallone e condizionata in molte scelte da uno sport nato uomo ma ormai sempre più donna. Quando a suo padre, in attesa fuori della sala parto, dissero che era nata un’altra bambina - terza dopo Viviana e Ilaria, in una famiglia invasa dalle donne - il signor Di Bari, dopo un solo attimo di smarrimento, fece spallucce e a giocare a pallone, desiderio di tanti padri, ci portò Daniela. Terreno fertile però, perché la bambina, per amore del padre o per passione innata, quello voleva fare.
        Di fede romanista, Daniela è finita alla Lazio grazie a un’amica, Manuela Lattanzi poi a lungo compagna di squadra. «Fino ad allora avevo giocato a pallone all’oratorio, dalle suore dove andavo anche a scuola. Il mio sport da piccola era il triathlon. Poi un breve periodo con i maschi all’Acquacetosa al centro federale. Manuela aveva il negozio di alimentari vicino a casa mia e così mi ha fatto scoprire che esisteva un calcio di solo ragazze. Mio padre veniva a prenderci e arrivava sempre prima per assistere agli allenamenti e non perdeva una partita. Mi aiutava a pulire gli scarpini, toccava a lui passarci il grasso. Mamma invece, da un certo momento in poi, deve aver pensato “maledetto calcio”, però la borsa me la svuotava sempre».
        Il padre è tra gli amori più grandi della sua vita e finora sicuramente anche il dolore più grande, perché non c’è più. E’ quello che l’ha accompagnata in ogni campo, tifoso numero uno, sempre presente. E anche se non pensava di essere la figlia preferita - «La preferita era Ilaria», dice ridendo e senza gelosia - lei non era tipo da chiedere permesso e si prendeva lo spazio dentro ai suoi abbracci, nel lettone, concedendosi sempre un po’ di tempo in più con lui, così fino alla fine. Daniela è racchiusa in questo pensiero: «io un po’ di più». Gli altri amori indissolubili e primari sono in famiglia: le sorelle, la madre i nipoti. Non si toccano, non si discutono, non si scalfiscono e soprattutto non si esauriscono. Vite diverse e occhi uguali, le donne Di Bari si riconoscono senza confondersi.
        E poi l’altro amore, la Lazio calcio femminile. Ventidue anni di vita insieme, una promozione in serie A, uno scudetto, oltre a quelli con la Primavera, svariate Coppe Italia, la Champions in uno stadio Flaminio colmo da non credersi. «Giocammo una settimana a Roma le qualificazioni, quattro squadre in un girone all’italiana. Non ce l’abbiamo fatta per differenza reti. Ma che bello lo stadio pieno, arrivavamo scortate dalla Polizia, sembravamo delle vere professioniste».
        Erano gli anni dell’opulenza. Quelli di Fiormonte e del lazialissimo Pino Insegno. I soldi c’erano e i risultati arrivavano. Poi è finito tutto di botto, come una carrozza di Cenerentola che torna zucca e spegne la festa. «Hanno smesso di pagarci i rimborsi, soldi non ce n’erano più. Siamo state svincolate. E sono andate tutte vie. Sono rimasta solo io con le ragazzine di 14, 15 anni, in serie A e siamo retrocesse».
        C’era anche Patrizia Panico in quella Lazio, e di mestiere voleva fare la calciatrice: quel talento, che ancora a quarant’anni è capocannoniere della serie A, ha seguito quella che era la sua strada lasciando la Lazio e Roma, la sua città. Per Daniela Di Bari però la Lazio femminile era una maglia cucita addosso, una seconda pelle che sembrava non doversi consumare mai. Con tutta la passione ha vissuto così la Lazio di Elisabetta Cortani. Capitano per sempre, chioccia e porta bandiera. Con quell'amore è rinata la Lazio, ritrovando la serie A e mantenendola a lungo tra gioie, fatiche e sofferenze. Lisa fino alla trasparenza però, quella maglia è diventata addirittura pesante. Finché la fine ha bussato, un’estate di tre anni fa. Incomprensioni, ricatti, discussioni, un sentimento di appartenenza condizionato e delimitato. L'impossibile si è verificato e Daniela Di Bari ha cambiato maglia, lasciando il cuore alla Lazio, sognando sempre una fine diversa, se proprio fine doveva essere.
        A 15 anni Di Bari, o Diba o Dibì come molte compagne ed ex compagne la chiamano, era in Nazionale. «Con la Nazionale maggiore ho fatto tutte le qualificazioni, Mondiali ed Europei, senza però arrivare mai a disputarne uno. Il primo allenatore è stato Sergio Guenza, il più bravo di tutti, il mister del calcio femminile. In azzurro sono rimasta fino ai 24 anni, l’ultima Nazionale che ho fatto è stata quella allenata da Carolina Morace, poi ho dovuto rinunciare, troppi raduni, non potevo, avevo iniziato a lavorare. Ma è stato un periodo bellissimo».
       Le scelte estreme si fanno non solo per necessità ma anche per amore. Daniela dopo il liceo si era iscritta in Ingegneria informatica. Ma non era quello che cercava. Ora quando si guarda le mani pensa quanto siano brutte, ma quelle stesse mani sono la sua vita e la sua storia, quanto e più dei piedi. «Mani strappate all’agricoltura», dice. Eppure le sue mani forti, muscolose, sono lo strumento del suo mestiere e sono belle. Lasciata ingegneria, si è laureata in fisioterapia, ma non bastava e concluso quel percorso ha attaccato con osteopatia: sei anni di studi ancora, che le permettono oggi di poter radiografare un danno e sentirne quasi il dolore solo facendo scivolare le mani sulle “ferite” dei pazienti. La Nazionale quindi era troppo impegno per una giovane donna che da quelle mani iniziava a scrivere la sua storia. Come le mani del padre che, tappezziere, poteva ridare vita a cose date per morte se non addirittura a far vivere le favole, perché è opera sua la balena di Pinocchio, dello sceneggiato che ha rapito milioni di persone e ha fatto gongolare la figlia per sempre: “e poi mio padre ha costruito la balena di Pinocchio”, così chiudeva ogni tema in classe, di qualsiasi argomento si trattasse. Ci vuole così poco a essere eroi per sempre.

Di mani e di piedi, dunque. E nessuna scelta da fare tra i due. Il calcio è una passione che non si esaurisce, il lavoro è altrettanto amore, non solo necessità. E poi c'è Roma, la città che non lascerebbe mai, che ha racchiuso i suoi sogni realizzati e tiene caldi quelli da realizzare. E non la Roma dei vicoli e dei monumenti, ma quella della tangenziale e del GRA, perché Roma è anche questa e Daniela la percorre tutto il giorno - passando rigorosamente per la tangenziale appunto - per raggiungere i suoi pazienti, che hanno nomi, nomignoli o soltanto il nome della via. Gente che non si stacca, che pur di farsi curare da lei si finge malata per sempre. Perché Daniela Di Bari non è solo brava è una coccola.

Il calcio in sottofondo, anzi a fianco. Due vite parallele. Gli allenamenti la sera, o nei buchi tra una terapia e un'altra. Le mani vanno dove vanno i piedi e viceversa. Dopo la Lazio, ogni anno è sempre la stessa storia: “Smetto, vado a giocare a calcetto. Anche se non sono buona per il calcio a cinque, sparo le palle altissime”. Non è vero, può fare quello che vuole se lo vuole, ma tanto alla fine non smette. Il richiamo del calcio a undici è troppo forte. Due stagioni al Cassino da pendolare, col treno avanti e indietro. Due campionati di sofferenza e di inadeguatezza. Uno spreco Di Bari in serie B. Poi l'estate scorsa, come ogni anno, tutti la volevano e lei doveva solo decidere dove andare. Base sempre a Roma, il lavoro non si discute. In ballottaggio alla fine c'erano Chieti e Acireale. Ha vinto quest'ultima. Un giorno caldo di luglio, in un bar di Messina, nell'andirivieni delle navi sullo Stretto. L'incontro con i dirigenti e l'allenatore dell'Acese. Una porta sempre aperta per la Lazio, la prima scelta sempre. E ha vinto l'Acese, la Lazio è un'illusione, un sogno, un ricordo vivo. Con Di Bari, part time in Sicilia arrivano anche Gioia Masia e Melania Martinovic, altre pendolari del pallone. Le tre straniere che salgono e scendono da Roma, per la rifinitura e la partita. Gli aerei presi sul filo per un acquisto dell'ultimo momento, i ritardi, le corse al campo, i selfie a mezza faccia, e tutte le avventure che fanno parte di una stagione emozionante. Un campionato senza sosta. Una cavalcata senza eguali, nemmeno una sconfitta. Il divario che cresce sulla Roma, altra pretendente al salto in A. L'Acese è forte in ogni reparto e con la coppia Di Bari-Masia (già compagne alla Lazio) la difesa è un bunker. Non passava nessuno e la promozione è arrivata con largo anticipo. Ci voleva un campionato così. E ora è già domani. Il momento delle scelte e dei corteggiamenti. Di Bari, nonostante l'età, resta un difensore desideratissimo. Inizieranno presto le telefonate, le parole per conquistarla. Una su tutti la Res Roma, che da quando Daniela non è più della Lazio la martella per averla in formazione. E' che sa troppo di Roma e quindi di tradimento alla Lazio. E' presto però, l'estate e il tempo dei resoconti sono lontani.

Le mani accarezzano e curano, i piedi corrono e calciano. Daniela Di Bari è molto di più di quanto raccontato. E' la pizza a pranzo, il cornetto la mattina, la prima e la seconda colazione, la cioccolata kinder e i supplì della mamma. E' la mania per le scarpe da ginnastica, di cui ne ha una collezione, che le fanno brillare gli occhi quando le vede in vetrina e non sa resistere. E' la catalessi quando il sonno la vince e può dormire un giorno intero. E' nei jeans e nei vestiti che ruba alla sorella. E' un tatuaggio con le iniziali delle tre Di Bari, che ancora non ha fatto e chissà se farà. E' nella frase preferita: se non puoi convincerli confondili. E' nelle letture, e in un libro preferito che non rileggerà mai più. E' nel film che rivedrebbe all'infinito, Parlami d'amore. E' dove la cerchi, sempre a disposizione, ma nessuno sa dove davvero vorrebbe essere. Ha un sogno che si addormenta con lei la sera e la risveglia la mattina. Quel sogno lo conosce solo lei ed è il suo mistero, il suo essere altro, il suo mondo a parte, il suo rifugio per sempre. Le mani e i piedi, il lavoro e il calcio, vanno assieme: Daniela Di Bari, difensore, occhi grandi e ciglia lunghe, la riconosci quando cammina, perché dondola e pensi che stia sempre per fare un cross.


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