Veltroni intervista Pioli: «Con i cinesi la mia Inter torna italiana»

Il tecnico: «Ho fiducia nei nuovi proprietari: sono qui per costruire. Hanno capito come si vince studiando Juventus e Milan. In Italia stanno venendo fuori dei giovani molto interessanti e sicuramente Berardi è un giocatore di talento, come lo è Bernardeschi»
Veltroni intervista Pioli: «Con i cinesi la mia Inter torna italiana»© ANSA
Walter Veltroni
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ROMA - Quando Pioli giocava io ne apprezzavo l’eleganza, il tocco di palla raffinato, la correttezza. Se dovessi dire un difetto che mi sembrava avesse, era forse la mancanza di cattiveria. Se poi è un difetto, nel calcio come nella vita. Da allenatore ha mantenuto le sue caratteristiche, figlie del carattere e dell’educazione, ma ora mostra una grinta e una determinazione che ne fanno uno dei più autorevoli tecnici del calcio italiano. Non è, per fortuna, uno showman. È una persona seria e dove è andato ha sempre fatto bene e lasciato un buon ricordo. Credo che la rivoluzione avvenuta nello spirito di una squadra confusa e smarrita, come era l’Inter di inizio stagione, sia proprio il frutto del lavoro e delle parole di questo allenatore di sicura prospettiva.

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Come è cominciato il suo amore per il calcio?
«È cominciato, come tanti bambini della mia generazione, nel cortile sotto casa. Appena si finivano i compiti di scuola il primo pensiero era andare a giocare con gli amici. Era un modo per stare insieme con loro, un modo per vivere allegramente la giornata. Poi il calcio ha preso il sopravvento. Ero portato, bravino. E’ nato in cortile, questo amore, e poi è proseguito con la squadra del quartiere dove i miei genitori a sette anni hanno iscritto me e i miei fratelli. Siamo cresciuti insieme, abbiamo giocato insieme. E’ stato un modo per conoscerci, per vivere le giornate insieme. Le amicizie di quegli anni sono restate nel tempo».

Cosa c’era di calcio nella sua stanza da bambino?
«Di calcio, nella mia stanza da bambino, c’era il poster di Mazzola e quello di Cruijff, un giocatore che ho sempre ammirato e ho sempre seguito nella carriera di allenatore. Era un giocatore intelligente,elegante, mi ha sempre affascinato. Il 14 di Johan Cruijff lo sento ancora molto presente in me».

Lei era interista?
«Sì, ero interista perché venivo da una famiglia di interisti, e la prima partita di serie A che ho visto è stata Bologna-Inter, goal di Muraro. Ero interista perché mio padre e mia madre ci parlavano bene dell’Inter. Sono cresciuto con l’Inter di Beccalossi, di Pasinato, di Altobelli, di Bordon, di Bini. Lo sono sempre rimasto, anche se poi la mia carriera da calciatore e da allenatore mi ha portato in altre squadre».

Che cosa è, per un bambino interista, sentirsi chiamare dall’Inter per fare l’allenatore?
«Un’emozione e, allo stesso tempo, un’occasione. Un’occasione arrivata nel momento giusto; ho preso tanto da tutte le mie esperienze. Ora posso migliorare, per completarmi dal punto di vista professionale, non solamente tecnico tattico, e anche dal punto di vista della gestione, dell’atteggiamento, della psicologia. Soddisfazione e allo stesso tempo anche molta responsabilità, perché alleno una grande squadra, e la squadra che sognavo da bambino. L’Inter è il club che ho sfiorato da giocatore, perché dal Parma sembrava potessi passare in nerazzurro. Poi, nello stesso giorno, sono passato invece alla Juventus. Oggi ho un’occasione che sto cercando di sfruttare nel miglior modo possibile».

Quali sono il ricordo più bello e quello più brutto della sua esperienza di calciatore?
«I più belli sono due. Il primo è il goal promozione con il Parma in serie C. Vincemmo il campionato di serie C e andammo in serie B. Io ero un ragazzino molto giovane e giocavo nella squadra della città nella quale ero cresciuto, la mia città. E’ stata una soddisfazione enorme, avevo gli amici in curva, avevo i parenti allo stadio tutto l’anno. Una comunità. Il fatto di segnare il goal che poi ci ha dato la promozione matematica è stata una grandissima gioia. Il secondo è aver giocato e vinto con la Juventus la Coppa intercontinentale nella finale dell’85 con l’Argentinos Juniors . Sono entrato al posto di Gaetano Scirea che aveva avuto un infortunio all’inizio del secondo tempo e ho giocato tutta la ripresa. Fu una partita spettacolare, finì 2-2 e poi vincemmo ai rigori. Di ricordi negativi ce ne sono, perché purtroppo nella mia carriera ho avuto degli infortuni gravi e ho dovuto smettere a trentadue anni, quando ero ancora giovane. L’infortunio più grave fu nel mio momento migliore, in semifinale della Coppa Uefa tra Fiorentina e Werder Brema. Dopo pochi minuti mi ruppi tutto il ginocchio destro, restai fermo un anno. Era un momento molto positivo, sembrava potessi essere convocato in Nazionale da Vicini. Però quell’infortunio segnò la mia carriera, perché il ginocchio non fu più quello di prima. Dopo ebbi altre tre operazioni, sempre nello stesso ginocchio. Ho fatto un’ottima carriera, da calciatore, però senza quell’infortunio credo che avrei potuto fare di più».

Poi ci fu l’incidente in Fiorentina-Bari...
«Fu un incidente pericoloso. Ha fatto molto spaventare i miei familiari e il pubblico. Era un calcio d’angolo ed eravamo in difesa, io marcavo Protti che era allora il capocannoniere della serie A. Lo anticipai di testa, lui fece lo stesso la rovesciata e fui colpito alla testa. Quando mi svegliai, fu impressionante, dentro la tac ero ancora vestito da calciatore. Un buio, un freddo allucinante. Io non capivo dove potessi essere. Molto spavento per la gente, per i miei genitori, per mia moglie. I tifosi della Fiorentina avevano, qualche anno prima, vissuto anche l’infortunio grave di Antognoni. Per fortuna fu meno grave e dopo due settimane tornai nella mia città, ad allenarmi».

La notte dell’Heysel come se la ricorda lei?
«La ricordo bene, purtroppo. Ero infortunato, avevo una frattura al quinto metatarso e non ero disponibile. Quindi ero già in tribuna nel prepartita e vidi gli incidenti che ci furono nella curva dei tifosi della Juve, la carica dei tifosi del Liverpool. Ci portarono subito negli spogliatoi e fu una situazione molto strana. Era un ambiente irreale, noi onestamente non eravamo consapevoli delle vittime, non ci dicevano niente. Ci avevano solo detto che bisognava giocare per questioni di ordine pubblico. Fu una giornata molto triste per tutti».

Qual è l’allenatore, nella sua esperienza di calciatore, dal quale ha imparato di più?
«Io ero un giocatore molto attento, disponibile, un lavoratore. Cercavo di capire cosa volessero i miei allenatori e, soprattutto, che obiettivo avevano e quale lavoro dovevamo fare per arrivare ad ottenerlo. Gli allenatori importanti per la mia crescita sono stati sicuramente Trapattoni, Bagnoli e Ranieri. Trapattoni mi emozionava, per l’entusiasmo, per la passione, per la voglia di stare sempre con la squadra sul campo a lavorare, a parlare. Era un allenatore che aveva già vinto tanto, però non smetteva tutti i giorni di avere quel fuoco dentro , quello che poi riusciva a trascinarti. Il Trap mi ha migliorato anche dal punto di vista tecnico. Mi ha fatto così tanto calciare col mio piede debole, che era il sinistro, che io poi, nella mia carriera, mi sono potuto definire benissimo un ambidestro. Questo lo devo quasi esclusivamente al lavoro che Trapattoni faceva con me tutti i giorni, lui poteva benissimo pensare di più ad altre cose, invece perdeva tempo a migliorare l’azione di una riserva come me. Questo mi è rimasto dentro, ed è la cosa che sto facendo anch’io, adesso che sono allenatore. Bagnoli per la serietà, per la praticità e concretezza che aveva anche nei rapporti personali. Era una persona che parlava poco ma sapeva quello che doveva dire, per entrare nella testa del giocatore. Ranieri perché è stato il primo allenatore che ho avuto capace di portare un calcio un po’ diverso da quello degli allenatori precedenti. Il primo allenatore che mi ha fatto giocare a zona, che mi ha fatto pensare di più a ragionare, di più a capire il gioco. Ranieri è peraltro una persona molto abile nella gestione dei rapporti, nella gestione della squadra. E’ stato premiato perché ha fatto vedere a tutto il mondo di cosa è capace. In tutta la sua carriera, ma soprattutto nella vittoria incredibile che ha avuto l’anno scorso con il Leicester».

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Dove può arrivare quest’anno la sua Inter?
«È chiaro che in questo momento il nostro futuro dipende molto da noi stessi. Ma non possiamo essere soltanto noi a determinare il nostro futuro, nel senso che noi stiamo rincorrendo le posizioni di vertice e non possiamo fare altro che provare a vincere ogni partita ed è quello che stiamo facendo. Ma sappiamo anche che davanti a noi ci sono formazioni molto forti che stanno correndo velocemente. Io dico ai miei giocatori che da qui al 28 maggio dobbiamo provare a vincere tutte le partite possibili e possiamo farlo, perché abbiamo le qualità. Però solamente il 28 maggio tireremo le somme. Sicuramente sarà una rincorsa molto difficile, molto complicata. Ne siamo consapevoli, ma ci affascina anche per questo».

C’è un giovane italiano che le piacerebbe avere in squadra?
«In Italia stanno venendo fuori dei giovani molto interessanti e sicuramente Berardi è un giocatore di talento, come lo è Bernardeschi. Io vorrei citare Pinamonti. Non dobbiamo mettergli troppa pressione perché è un ragazzo veramente giovanissimo, ha fatto solamente una partita in Europa League. Ma è un ragazzo di ottima prospettiva, di grande qualità e, tra l’altro, un ragazzo con grande serietà, con grande umiltà. Credo possa essere un prospetto molto importante per l’Inter, ma anche per il calcio italiano».

Leggi l'intervista completa sull'edizione odierna del Corriere dello Sport-Stadio


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