Calciopoli, 10 anni dopo, Tullio Lanese: «Ero il garante dei miei arbitri»

L'ex presidente dell'Aia: «Ho pagato per il mio ruolo di presidente dell’Aia Sempre sereno: è finita, non voglio pensarci più»
Calciopoli, 10 anni dopo, Tullio Lanese: «Ero il garante dei miei arbitri»
Edmondo Pinna
7 min

ROMA - «Io ti conosco, non hai mai fatto male a nessuno». Dall’altra parte del telefono c’è la donna della sua vita, «una donna straordinaria e non perché è mia moglie». Si chiama Italia, e l’Italia è scossa, in quei giorni, dalle prime scosse del terremoto sportivo che prenderà il nome di Calciopoli. L’ha chiamata praticamente subito, una volta dipanata quella matassa che sembrava davvero intricata. Era impegnato in una discussione con quelli che, ancora oggi, chiama «i miei arbitri», appena finito il pranzo, un giorno di raduno a Coverciano che non sarà come tanti altri. «Presidente, ci sono i Carabinieri, chiedono di lei», una doccia gelata che interrompe la conversazione. Venivano a portare i primi avvisi di garanzia agli arbitri, dopo averne consegnati altri in giro per l’Italia, i due uomini dell’Arma (in borghese), uno anche a lui. «Avevo un ruolo di garanzia, dovevo difendere soprattutto i ragazzi». Nessun processo pubblico, chiese e ottenne che solo quelli che erano coinvolti venissero chiamati in Aula Magna. Poi si concentrò sulla sua, di busta. «Associazione a delinquere» l’accusa. Un sospiro, per mandare giù il boccone, per ritrovare quella serenità che ha sempre contraddistinto la sua vita, in campo, da grande arbitro internazionale, e fuori. «Io ti conosco, non hai mai fatto male a nessuno», gli disse dopo averlo ascoltato Italia, la mamma dei suoi figli, Giorgia e Gianmarco. «Non volevo che ti preoccupassi» gli rispose Tullio Lanese, presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, che sembrava al centro della tempesta, in 24 destinatari degli avvisi di garanzia. «Volevo tranquillizzare mia moglie», ricorda oggi, «perché io non ero preoccupato».

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Sono passati dieci anni, che cosa le è rimasto dello scandalo che ha finito per travolgere anche lei, ma che l’ha vista assolta nel processo penale a Napoli?
«Onestamente? Poco o nulla. Ma non per arroganza, superbia, presunzione. Perché, per carattere, sulle cose che appartengono al passato, sono abituato a mettere una pietra sopra. Soprattutto, quando si sono concluse bene. A Napoli sono stato assolto “per non aver commesso il fatto”. Finita. Inutile tornarci sopra. Per questo non ho mai parlato di questa vicenda».

Ricorda quel suo «primo giorno» a Coverciano?
«Uno degli addetti al centro sportivo mi venne a cercare, mi sembra fossi su, al primo piano, parlavo con alcuni arbitri. Francamente, anche dopo la consegna di quei provvedimenti, mi sembrava che ci fosse qualcosa che non andava, non si conoscevano i contorni della vicenda, le motivazioni di quello che stava succedendo».

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Fu sorpreso?
«Sì, non me l’aspettavo. Soprattutto, non mi spiegavo perché cercavano proprio me per primo. Ero abbastanza tranquillo, sono sempre sereno per carattere, non mi sposto mai, come diciamo noi. Ero - e sono ovviamente convinto oggi - che non avevo fatto nulla. Mi preoccupavo per la mia famiglia, abbiamo un nome a Messina, la nostra agenzia d’assicurazioni è un pezzo di storia, l’aveva mio papà, la mia famiglia».



Ma allora perché hanno coinvolto anche lei? La giustizia della Federcalcio l’ha squalificata per un anno, eppure a Napoli è uscito pulito...
«Forse qualcuno ha voluto “giocare”, forse qualcuno ha provato a mettermi in mezzo. Non lo so e non mi interessa, soprattutto ora. Io avevo un ruolo di garanzia, ero il presidente dell’Aia, probabilmente giusto fossi io a farmi “garante” per gli altri. Molti ragazzi si trovarono in difficoltà, quell’esperienza ci legò molto, ancora ci sentiamo, qualche volta, ero preoccupato per loro».

Cosa conserva di quell’anno tremendo?
«Tutto. Nel senso che qui a Messina, sotto casa mia, ho una cantina che mio figlio, soprattutto, ha adibito ad archivio. Non solo per quello che è successo durante Calciopoli, ma anche nella mia carriera da arbitro. Un giorno scenderò giù e ricomincerò a leggere».

Lei ha una nipotina piccola, Anita, che ha 3 anni. Se un giorno le chiedesse di spiegarli Calciopoli, cosa risponderebbe?
«Di chiederlo alla mamma.... (ride). La mia famiglia è stata la mia salvezza, i miei figli sono sempre venuti a Napoli durante il processo, mi chiedevano come facessi ad accettare quello che stava succedendo. Rispondevo loro: “Io sono sereno, so chi sono, il mio cuore, la mia vita la conosco. Ho sempre dato tanto, molto a tutti. Calciopoli? C’erano dei comportamenti sconvenienti. Ma tornando alla domanda: le direi, “gioia mia, Calciopoli è stato qualcosa che ha creato difficoltà ma che ha anche portato anche qualcosa di buono”».

Il calcio l’ha squalificata per un anno: un’ingiustizia?
«Ho pagato il mio ruolo, ma è finita. Ingiustizia? Non mi è piaciuto....»

Tornando indietro, rifarebbe tutto? C’è qualcosa che vorrebbe cambiare?
«Non ho nulla da rimproverarmi, non ho mai vissuto di rimpianti».

Uno, però, forse c’è: lei sta ancora aspettando che l’Aia le restituisca la benemerenza...
«Quello è un capitolo a parte: è qualcosa che mi spetta di diritto, che rappresenta quello che ho fatto nella mia vita. Nessuno me l’ha regalata, me la devono dare. Avevo parlato con l’Associazione, quasi un anno fa di questi tempi. Il presidente dell’Aia mi aveva assicurato che, alla prima occasione... Beh, sto ancora aspettando...».


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