Calciopoli 10 anni dopo. Pancalli: «Era lo specchio del Paese come Mafia Capitale»

L'ex Commissario della Federcalcio dopo lo scandalo, oggi presidente del Comitato Paralimpico, in tervistato dal Corriere dello Sport-Stadio: «In quell'occasione fu violata la lealtà»
Calciopoli 10 anni dopo. Pancalli: «Era lo specchio del Paese come Mafia Capitale»© LaPresse
Edmondo Pinna
8 min

ROMA - «Tanti piccoli passi indietro per tutti, un grande passo in avanti per il calcio». Parafrasando la frase che pronunciò Neil Armstrong mettendo piede sulla Luna, è quello che successe in via Allegri nell’autunno del 2006, l’onda di Calciopoli non più tsunami, la ricostruzione da avviare. Un’impresa quella, un’impresa questa. Guido Rossi, accettando la presidenza della Telecom, aveva dovuto lasciare la Figc. Consegnando al suo successore un calcio che aveva avuto la necessità di andare veloce, per emettere i suoi giudizi sportivi. Ma che doveva ancora verificarsi. Quello del “passo indietro” era un metodo efficace, sperimentato. Funzionava - e bene - dentro casa, con Roberta, sua moglie, e i figli Maria Giulia e Alessandro, per garantire la stabilità e gli equilibri familiari. Perché non avrebbe dovuto funzionare in Federcalcio? È sera e sembra una scena da film. Di Calciopoli ha sentito ovviamente parlare, è vice presidente del Coni. Ma l’interesse, fino a quel momento, era quello dell’uomo della strada, del tifoso, che ha tremato quando lo scandalo è scoppiato, visto che la Nazionale di Lippi doveva partire per il Mondiale in Germania, che ha gioito quando Cannavaro ha alzato la coppa nel cielo di Berlino. È sera e sembra una scena da film quando il telefonino squilla. «Luca, allora preparati, domani ti nominiamo Commissario della Federcalcio». Luca è Luca Pancalli, presidente del Comitato Paralimpico. Colui che ha (ri) portato il calcio dalle aule di tribunale (sportivo) al campo. Con un fiore all’occhiello, «aver sempre fatto squadra, anche con voi giornalisti, ma non ve ne siete accorti se non all’ultimo momento». E un macigno sull’anima, che non andrà mai via, «la morte dell’ispettore Raciti».

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Partiamo dalla fine, dieci anni dopo, rileggendo la storia, Calciopoli c’è poi stata davvero?

«Certo che sì. L’opinione pubblica ne ha stabilito i confini sulla base delle partite, del numero dei protagonisti finiti a processo. Io dico che anche se per una sola persona, un solo dirigente, una sola partita, un solo arbitro, aver violato il principio fondamentale dello sport, la lealtà, significa avere Calciopoli. Ieri, oggi, domani».

Lei prese la macchina-calcio dalle mani di Guido Rossi: funzionava o era solo luccicante fuori ma senza motore?

«Il precedente Commissario ci mise nelle condizioni di farla ripartire. Ma bisognava affrontare mille tornanti, mille curve. Ricordate il demone di tutti i demoni, il “diritto di veto”? Bisognava riscrivere lo Statuto, bisognava riorganizzare il Codice di giustizia, bisognava rivedere i conti, bisognava ridare fiducia all’Aia, bisognava ricostruire il rapporto con la Uefa, e Platini sa per chi ho votato... Bisognava garantire, soprattutto la quotidianità».

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Il flash che le è rimasto in testa.

«I tavoli che avevo aperto con le componenti, perché in fin dei conti ero un Commissario sui generis, qualsiasi decisione, qualsiasi modifica doveva essere votata, mica potevo fare come volevo. Altro che Cgil, Cisl e Uil... Ognuno era portatore di interessi particolari che pesavano più dell’interesse generale. Ricordo le nottate, ricordo in qualche caso i forti attriti, volavano non solo parole grosse, ma anche bottigliette e pezzi di carta. Però di ognuno conservo un ricordo nel cuore. Di Campana lo spessore e le doti da vero sindacalista, di Ulivieri la praticità, di Tavecchio l’intelligenza nel condurre una trattativa, di Matarrese la sensibilità politica, di Gussoni la capacità di riequilibrare il sistema arbitrale in tre mesi. Il primo a capire che bisognava fare un passo indietro fu Matarrese. Lo abbiamo fatto tutti».

Che cos’era Calciopoli, allora?

«Lo specchio di un Paese. Come lo è Mafia Capitale, come lo è stato Tangentopoli. E’ un’anomalia, una distorsione della società. Ma la colpa non è solo del calcio, dello sport. Che non ha modo di difendersi da solo e deve essere difeso».

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Maggio 2006, legge i giornali e dice?

«Ci risiamo, non era la prima vola che il calcio mostrava il peggio di sé. Ma ero più preoccupato dalla Nazionale che doveva andare ai Mondiali».

Settembre 2006, suona il telefono e?

«E sento il presidente del Coni, Petrucci, che mi annuncia che dal giorno dopo sarei stato Commissario della Figc. Non mi sento mai adeguato al compito, soprattutto se è una sfida che non preparo, senza allenamento. Non ho dormito. Mia moglie Roberta mi diceva, “vedrai, sarà come qualsiasi altro incarico”, ma sapevo che la sua conoscenza di quel mondo era quasi nulla. Non lo sapevo nemmeno io.... ».

In sette mesi, con la sua squadra (i vice Massimo Coccia e Gigi Riva), ha fatto quello che non sarebbe riuscito in sette anni: il segreto?

«Lo ha detto lei, la squadra. Sono riuscito a farlo con le componenti, il dialogo è stato alla base di tutto. La Federcalcio è la federazione più complicata, il Consiglio federale è un’assemblea nella quale ognuno porta i propri interessi personali. Ho richiamato tutti al senso di responsabilità, come feci piombando all’Assemblea di Lega a Fiumicino dopo la stretta sulle norme successive alla tragedia di Catania. Seguii il consiglio che mi aveva dato Walter Veltroni: “il miglior modo per dare il meglio di se stessi è sentirsi inadeguati”».

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E’ riuscito a mettere al loro posto tutti i pezzi del puzzle?

«Assolutamente no, ci sarebbe voluto un supereroe. Il nostro obiettivo era riportare il calcio alla sua democrazia, alle elezioni, nel minor tempo possibile. Perché un commissariamento è sempre una ferita. Mi porterò dietro sempre l’esperienza umana che feci, la grande esperienza professionale e anche “politica”. Ero andato... all’Università. E il primo giorno in Figc mi sono sentito quello stato d’ansia che non provavo da quando andavo a dare gli esami».

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Il rimpianto?

«Gli Europei del 2012. Ero già uscito, l’avevamo presa in corsa quella candidatura, ma l’avremmo meritata».

La ferita più profonda?

«La morte dell’ispettore Raciti. Ancora oggi, ho il groppo allo stomaco quando ci penso. Mi chiamò credo il ministro dell’Interno, Amato, o forse il capo della Polizia, De Gennaro. «C’è stato un morto», ed era Raciti. Pensai alla sua famiglia, ai suoi colleghi. Chiamai tutti in Federcalcio, era già quasi notte, e fermai tutto. Agii d’istinto, ma così bisognava fare. Vedere ai funerali il figlio dell’ispettore Raciti col cappello del papà e pensare a mio figlio Alessandro che aveva la stessa età, fu un attimo. Solo dopo (e anche a fronte di qualche minaccia) capii la portata del gesto che avevamo fatto. E dico “Avevamo” perché, anche in quell’occasione ci comportammo da squadra».


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