Roma, il giorno non era ieri

Roma, il giorno non era ieri© LAPRESSE
Giancarlo Dotto
3 min

ROMA - Contro un Real che di marziano ha solo le orecchie di Bale, la Roma fa quello che può. L’onesta perdente. Troppo brutta e purtroppo vera. Schiacciata in area alla propria reale pochezza più che dalla presunta galatticità dei bianchi. A tenerla in vita per quasi tutto il primo tempo sono le imprese di Olsen, che ha un solo torto, non chiamarsi Alisson, e la furente lucidità da trincea di un omerico De Rossi, che tanti imbecilli a Roma vorrebbero pensionare.

Lievemente meglio nella ripresa, più per l’indolenza merengue, svuotata dalla pochezza giallorossa e le scosse di Ünder, l’unico vivo là davanti. Basta lo sfregio tutto verticale di Modric via Bale per chiudere una partita mai stata aperta. Per il resto, da segnalare un Nzonzi che scammella lento e incomprensibile per il campo senza mai incrociare nemmeno per sbaglio la palla. Peggiore, ma di molto, del peggior Strootman. Uno Dzeko sempre più mister Malinconia e un Kolarov di cui improvvisamente ci si accorge dei capelli bianchi.

Il Real se la spassa. Alla fine sono tre e se non sono sei o sette è perché lo svedese tra i pali fa la piovra. Fioccavano alla vigilia appelli contrastanti, nel caos che la fa da padrone a Trigoria. Roma devi andare leggera di testa, Roma devi ritrovare l’anima, Roma te la devi giocare, Roma non puoi cercare il confronto alla pari. Zaniolo titolare al Bernabeu è la carta della speranza o della disperazione? Una lucida e calcolata follia o il salto nel vuoto del non saper più che pesci prendere e dunque optare per il più improbabile dei pesci, un ragazzo che debutta in Champions dopo essere stato convocato in Nazionale, senza aver mai giocato un minuto in serie A? Il paradosso di una consacrazione che avanza in assenza di prove. Diventerà qualcuno un giorno, ma il giorno non è oggi e forse nemmeno domani.

La verità s’impone. L’inverosimile galleria di sfondoni e aberrazioni, in entrata, in uscita, in ogni luogo, della gestione tecnica di Monchi, un cognome un destino, ha svuotato questa Roma. Una castrazione chirurgica, di tasso tecnico e di personalità. Una squadra intossicata da equivoci, giocatori presi a casaccio, doppi e di dubbia utilizzazione, di leader spenti e sfiduciati e di giovani che non sanno dove guardare per trovare fiducia (Kluivert in tribuna vogliamo parlarne? L’unico che poteva diventare un castigo nelle abituali mollezze del back madridista). “Ci vuole la partita della vita”, berciava qualche altro gnoccone parlante. “La partita della vita” vale per il Chievo se mai un giorno dovesse giocare al Bernabeu, ma addosso alla Roma è un concetto umiliante. E comunque non ha fatto nemmeno quella.


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