Peppe era il rigore. La lingua italiana con lui era al sicuro. Il calcio pure. Non lo erano i ragazzi che incappavano nelle sue rampogne quando pensavano di scherzare con il congiuntivo o di prendersi qualche licenza con la punteggiatura. Giuseppe Pistilli era il giornalismo autorevole, rispettato, senza cedimenti, senza deroghe. Aveva uno stile inconfondibile, nella vita come nel lavoro.
E’ stato un riferimento fondamentale nel giornale di quegli anni fantastici, il giornale di Tosatti, Peppe era il suo vice, Sergio Neri il condirettore, Ezio De Cesari firma del calcio, Domenico Morace il caporedattore, Adalberto Bortolotti e poi Italo Cucci direttori di Stadio, che a fine anni Settanta era stato acquistato dal gruppo Amodei e legato al Corriere dello Sport. Quando entravi in quel mondo prima ne restavi abbagliato, poi sbalordito: ma come posso io stare in mezzo a questi giganti?
Peppe era un gigante. Era molisano e ha sempre mostrato con orgoglio le sue origini. Al Corriere dello Sport lo aveva portato Luciano Oppo nel ‘62, quando aveva appena 23 anni e stava studiando Giurisprudenza, ma era stato Antonio Ghirelli a intravedere nel giovane Pistilli le doti del giornalista di talento. Ha fatto tutta la carriera in Piazza Indipendenza, da capo del calcio fino a vice direttore e a prima firma del calcio. Per il nostro giornale ha seguito i Mondiali per trent’anni, dal ‘70 al ‘98. Viveva per il suo lavoro e amava il calcio, ma era competente anche di altri sport, la sua grande passione, era il tennis, il campo rosso era il suo regno. Era un trapattoniano convinto, ancora oggi ricordiamo le furenti polemiche con Sacchi, ma nel ‘94, a Boston, quando abbiamo battuto la Nigeria nei supplementari lo abbiamo visto esultare come se sulla panchina azzurra fosse seduto il suo più grande amico. E’ stato per anni il presidente della squadra di calcetto del giornale e così lo chiamavamo al Corriere, “presidente”. Noi giovani di quell’epoca lo abbiamo temuto, stimato e ammirato, ogni suo rimprovero era una moneta d’oro che conserviamo ancora oggi.