Juventus, con Agnelli stravince l'appartenenza

L'editoriale del Direttore del Corriere dello Sport-Stadio dedicato al sesto scudetto di fila della società bianconera
Juventus, con Agnelli stravince l'appartenenza© Getty Images
Alessandro Vocalelli
4 min

ROMA - Sei scudetti consecutivi, un posto nella storia, nella leggenda, e tutti lì a chiedersi qual è il segreto. Bello partecipare al dibattito, perché si sprecano gli elogi - tutti meritati - e le spiegazioni, tutte assolutamente indiscutibili: la Juve è il risultato del suo gruppo dirigente, ha un allenatore e dei collaboratori tecnici di altissimo profilo, ha una squadra di campioni fantastici e un pubblico che, in Italia, la fa sentire sempre a casa. Ecco, la Juve come espressione di una comunità sconfinata, capace di saldarsi nei dialetti e ritrovarsi in una storia fatta di appartenenza, di radici, esattamente come è la Juve oggi. Una Juve da descrivere senza utilizzare termini stranieri.

Una società, guidata da Andrea Agnelli, che non si è preoccupato di formare un team - come si usa dire - ma di far sentire forte il peso e la responsabilità di partecipare ad un progetto di famiglia. La famiglia Agnelli. Lui, Andrea, ha raccolto la sfida delle proprietà straniere anche europee, disponibili almeno sulla carta a dispensare e forse a sperperare milioni di euro, puntando invece sulle specialità della casa: rigore, competenza, fantasia e passione. Già, passione: la passione di un presidente tifoso, che forse non a caso nella finale di Champions si troverà di fronte il Real Madrid con la sua anima fortemente radicata in Spagna. Da lì, da Agnelli, da Marotta, dalla società che non chiameremo club, è arrivato l’input, anzi no l’indicazione, di puntare prima su Conte - il capitano - e poi su un tecnico immediatamente coinvolto nello stile-Juve. Quanto era estroverso e naif in campo e fuori, tanto è diventato rigoroso Allegri nel suo aplomb - anzi no, nel suo stile - di allenatore. Attento ai particolari, feroce come vuole la tradizione nel puntare alla vittoria. Lui che guida non uno staff, ma un gruppo di collaboratori e amici.
E poi la squadra, in cui non spiccano i top-player, come si usa dire insistendo sempre nei termini stranieri, ma i grandissimi campioni che, oltre a quelli trapiantati improvvisamente nel nostro campionato, in Italia sono cresciuti e si sono realizzati: da Higuain a Dybala - a Napoli e Palermo - a Pjanic e Cuadrado, con le loro esperienze a Roma e Firenze. Ma soprattutto una salvaguardia azzeccatissima delle radici e di quell’appartenenza da cui siamo partiti. Dal capitano, da Buffon, un monumento bianconero che sarebbe oltraggioso non premiare col Pallone d’Oro, ai suoi compagni di reparto - Barzaglibonuccichiellini, da citare ormai in una parola - a Marchisio che sotto il palco continuava a stropicciarsi gli occhi per asciugare il pianto. Non di rabbia per non essere più un titolarissimo, ma di gioia, perché è fortissimo il richiamo alla bandiera. Tanto più se arrivi dal vivaio.

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