La panchina dell'Ikea

La panchina dell'Ikea© ANSA
Giancarlo Dotto
3 min

Potessi penetrare l’impenetrabile cranio di Luca Campedelli, so bene cosa farei per la presentazione di Gian Piero Ventura, detto anche “Andremo a Mosca” dai suoi milioni di simpatizzanti. Una cosa cinematografica, ma meno tamarra di De Laurentiis. Lui, il Reprobo, che appare da una porticina secondaria, scortato dalla tromba che uccide di Miles Davis in “Ascensore per il patibolo”, un noir da sballo della fine anni 50 con una Jeanne Moreau seconda in bellezza solo a se stessa.
Lui Gian Piero, la moglie Luciana invece di Jeanne al fianco, che arriva, sorseggia con studiata lentezza uno scotch doppio malto, alza la testa e, masticando una fetta di pandoro, sibila alla mala accozzaglia riunita, la smorfia pendula tra Bogart e Yoghi (che gli vengono bene): «Sciacalli, vi conosco uno a uno. Mi avete sparato a migliaia, mi avete dato per morto e invece sono ancora qui. Alla faccia vostra… Se mai ne avete una», per poi sparire dentro lo stesso ascensore che dal patibolo lo porta a un altro patibolo.
Quello di una squadra che tutti danno già per morta. Che, ammettiamolo, è un modo originale per tornare alla vita. Con quel “meno uno” sulla maglia che sa tanto di storia già scritta. Come se, al fondo della sua disgrazia, il settantenne Capitan Ventura non anelasse altro che aggiungere disgrazia alla disgrazia, una sordida e ormai irrinunciabile voluttà del disastro, sognando in cuor suo ma non confessando l’impresa che lo netterebbe almeno in parte dalla gogna svedese. Qualcosa, insomma, al confine tra l’espiazione e la redenzione. Lo so bene, lo vedo, mi sembra di toccarlo con mano, cosa brucia in queste ore nello spazioso torace di nonno Ventura e nel suo non meno spazioso testone. Una smania di rivalsa che se lo porta via, appena ammorbidita dal sole amico di Zanzibar, l’isola felice quasi quanto il Chievo, e da quello ancora più amico del bonifico federale di fine rapporto. L’uomo “esonerato” come nessuno mai nella storia ha ora la grande occasione di dimostrare che i veri allenatori e i veri uomini si vedono nelle periferie del mondo, dove si fa fatica a mettere insieme il pandoro con il companatico e le telecamere ci arrivano solo perché hanno perso la strada. Partire dal sottoscala per ricominciare dal sottoscala, ma con una panchina sotto il sedere che non sia quella dei giardinetti di Bari fronte mare, a spiare l’agonia dei polpi, sapendo due cose fondamentali, che il peggio è comunque alle spalle, Tavecchio compreso, e che l’amore per se stessi è, al fondo di tutto, l’unico da cui nessuno ti potrà mai esonerare.


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