ROMA - Il suo pallone d’oro è un pallone imperdibile: «Mancava poco alla fine, all’impresa del -9». Ultima azione: «Se non fu l’ultima fu la penultima. Non ero un gigante, non ero un saltatore. Vincevamo 1-0 contro il Campobasso, davanti alla nostra porta si precipitarono in 11, portiere compreso, per battere un corner. Io rimasi al limite dell’area». Giancarlo Camolese era al posto giusto e non poteva fare la cosa sbagliata.
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Quella palla l’ha difesa, l’ha salvata e lei se ne stette buona buona tra i suoi piedi. Con Camolese attraversò il campo, il tempo, una stagione infinita. Scivolava veloce, era troppo importante per essere calciata sulla luna o finire “banalmente” in una porta: «Quando la presi sentii rumoreggiare i nostri tifosi - ricorda Camolese - ero talmente stanco e concentrato da non accorgermi che il portiere del Campobasso non era in porta. Dissi tra me e me “tengo la palla, vado verso la bandierina, faccio trascorrere il tempo". I laziali mi chiedevano di tirare, di segnare. Non ho mai avuto un grande tiro, ho iniziato a correre il più lontano possibile. Di tiri ce ne sarebbero voluti due per centrare la porta da quella posizione, per giunta il 5 luglio dopo tante fatiche». Giancarlo Camolese, classe 1961, ex centrocampista, una vita da mediano a recuperar palloni e a giocare generoso, sente ancora il rumore dell’impresa: «L’arbitro era Casarin, dopo quel recupero mi ritrovai a due passi da lui. Lo vidi mentre avvicinò il fischietto alla bocca e decretò la fine di Lazio-Campobasso (1-0, ndr). Era tutto finito, ce l’avevamo fatta. Eravamo salvi. Non dimenticherò mai quel fischio».
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