Speciale Lazio: Fiorini, quel gol che si continua a festeggiare

La vicenda Bielsa ha stabilito il punto più basso del rapporto tra tifoseria e dirigenza. Eppure parliamo di una società che nella sua storia ha vissuto momenti emozionanti. Ecco un appassionante viaggio che serve a tutti, anche al presidente Lotito, per ricordarsi sempre cosa vuol dire "la lazialità". Nella puntata di oggi, la prima, il racconto degli ultimi otto minuti che decisero Lazio-Vicenza il 21 giugno 1987: brividi e lacrime
Speciale Lazio: Fiorini, quel gol che si continua a festeggiare
Stefano Chioffi
7 min

ROMA - L’orologio, il tempo che scorre, ancora otto minuti, quel pallone che non entra nella porta del Vicenza, le parate di Dal Bianco che sembra Jascin, il risultato fermo sullo 0-0. Fascetti in panchina con il solito golf nero di lana, anche se è il 21 giugno e fa caldo: un maglione mai tolto per tutta la stagione per una questione scaramatica. E poi l’amore della gente, un mare bianco e celeste, sessantaduemila persone, forse di più, strette al fianco di una Lazio che lotta per evitare la retrocessione in serie C, dopo essere partita con nove punti di penalizzazione. Colpa un’altra volta delle scommesse, di quelle scellerate telefonate di Vinazzani, che secondo Corrado De Biase, capo della Procura Federale, aveva cercato nella stagione precedente di truccare alcune gare del campionato di B.

Virtù, qualità d’eroe: “ammiro il tuo eroismo”; valore, coraggio straordinario, degno di un eroe: “compiere un atto d’eroismo”, “il generale ha elogiato l’eroismo dimostrato dai soldati”. Poco comune con significato concreto, atto eroico: cimentarsi in una serie di eroismi. Dal vocabolario Treccani

È il 21 giugno del 1987: Terraneo tra i pali, Podavini sulla fascia destra, Acerbis terzino sinistro, Gregucci e Filisetti al centro della difesa. Caso in regia, Camolese mediano accanto a Esposito. Tre punte: Poli e Mandelli sulle fasce, Fiorini centravanti. L’arbitro è D’Elia. Restano otto minuti per non mandare in frantumi un anno di sacrifici, di ritiri, di allenamenti, di salite superate, di rimonte, di progetti. Il presidente Gianmarco Calleri segue l’incontro vicino al sottopassaggio, dalla parte della curva Sud: è seduto su una panchina di ferro, verniciata di verde, stesso rituale di ogni domenica, allo stadio Olimpico. Al suo fianco c’è il direttore sportivo Carlo Regalia: si conoscono dai tempi dell’Alessandria, hanno impiegato poco a innamorarsi della Lazio. Calleri ha rilevato la società insieme con il fratello Giorgio e all’imprenditore romano Renato Bocchi. Hanno evitato il fallimento del club, facendo il loro ingresso un anno prima: i libri contabili stavano finendo in tribunale, debiti e creditori lasciati in eredità da Giorgio Chinaglia, tornato negli Stati Uniti dopo aver capito che gli investitori americani - alcuni dei quali legati alla Warner - si erano ormai defilati. Ancora otto minuti di cronometro: tante famiglie in tribuna, papà e bambini, donne e nonni. Generazioni di laziali. Guardarsi negli occhi e farsi coraggio, perché il cuore batte forte e il tempo scivola via. Quel pareggio sta condannando la squadra biancoceleste: l’incubo della serie C, il rischio di un’altra crisi finanziaria. Ma la Lazio non si ferma, non si piega, non è stanca: c’è quel discorso di Fascetti che nessuno ha dimenticato. Ritiro di Gubbio, estate del 1986, il verdetto della Caf, il patto di non mollare, di provare a realizzare un’impresa senza precedenti. Ci credono, in campo. E ci crede la gente, perché un anno così faticoso, pieno di affetto, non può spegnersi così. Una squadra e i suoi tifosi, il bunker del Vicenza, l’ennesimo tentativo, l’azione che riparte, un tiro-assist di Podavini, il pallone che finisce a Fiorini, un colpo di tacco per liberarsi della marcatura del numero cinque, dello stopper Bertozzi, e quel tiro di destro - istinto e disperazione - che viene accompagnato in porta dall’amore, dalla fede, dall’urlo dell’Olimpico.

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Una fotografia destinata a trasformarsi in una gigantografia nella memoria del popolo biancoceleste: la corsa di Fiorini, il cartellone pubblicitario saltato per raggiungere la curva Nord, l’abbraccio dei compagni, le lacrime del centravanti e della gente, un video che continua a essere tra i più scaricati su youtube, immagini che non invecchiano, neppure a distanza di quasi trent’anni. Una lezione di storia nel segno della lazialità: Fiorini e quell’undici sulle spalle, un vincolo affettivo che non si scioglie, un nome da tramandare, perché il calcio ha il potere unico di legare personaggi e ricordi, epoche e momenti, generazioni differenti e distanti a livello anagrafico. Ci sono episodi che rappresentano un patrimonio di sentimenti. Il gol al Vicenza, una salvezza ancora da sudare e da conquistare negli spareggi a Napoli con il Taranto e il Campobasso, altri ostacoli fino alla gioia. Giuliano Fiorini, modenese, capelli lunghi, romantico e senza regole, una gestualità che ricordava quella di Long John, giocava con i calzettoni arrotolati e senza parastinchi. Vive nei racconti dei laziali, nelle coreografie della curva, perché quel minuto 82 contro il Vicenza ha cambiato direzione al destino della Lazio. Fiorini non c’è più, è stato portato via da un brutto male quasi undici anni fa, il 5 agosto del 2005, a Bologna: aveva affrontato con tenacia anche quel nemico invisibile, che provava ogni giorno a togliergli energie. A portarlo alla Lazio, nel 1985, era stato il presidente Giorgio Chinaglia, che era andato a prenderlo dal Genoa, seguendo i consigli dell’allenatore Gigi Simoni. Due anni a Roma per innamorarsi di una maglia, per sposare certi ideali, per festeggiare più avanti da tifoso - davanti alla televisione - la Coppa delle Coppe vinta a Birmingham contro il Maiorca, la Supercoppa europea alzata di fronte al Manchester United di Ferguson e Beckham, lo scudetto del 2000: con il cuore non aveva mai smesso di esserci, telefonava spesso ai vecchi amici. Una lazialità condivisa con la moglie e i figli, che partecipano sempre ai grandi appuntamenti organizzati dal popolo biancoceleste. Già, perché Giuliano Fiorini è ancora sotto la curva, come in quella domenica di giugno.

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