11 novembre 2007: «Gabriele vive con noi»

Qualche giorno fa la famiglia Sandri è venuta a trovarci. Nel pomeriggio sit in dei tifosi davanti la Curva Nord, poi la Messa in ricordo del tifoso scomparso
11 novembre 2007: «Gabriele vive con noi»
F. Patania e D. Rindone
18 min

 ROMA - La notte al Piper, la doccia dopo essere tornato a casa, via Pereira, quartiere Balduina, appena un paio d’ore di sonno, la partenza con gli amici verso San Siro da Piazza Vescovio. Gabriele Sandri s’infila su una Renault Scenic. E’ seduto dietro. Sono in cinque. Guida Marco. Ci sono anche Federico, Simone e il suo amico Francesco. Partono alle 6,30 andando incontro al destino che si consuma neppure tre ore dopo, alle 9,18, alla stazione di servizio di Badia al Pino Est sulla Autostrada del Sole, in direzione Milano. Quel colpo di pistola dell’agente Luigi Spaccarotella, esploso senza un motivo plausibile, tronca la vita al dj Gabbo, 26 anni. Una domenica nera del calcio italiano, una morte incredibile per le circostanze in cui si consuma. Sabato saranno passati dieci anni. Abbiamo invitato il papà Giorgio e il fratello Cristiano, che ancora oggi si portano dentro un dolore immenso, in redazione, per ricordare Gabriele nel modo giusto e più dolce possibile.

Come vi piacerebbe fosse ricordato?
CRISTIANO: «Con spontaneità. Non ci aspettiamo qualcosa, quello che sarà fatto ci farà piacere. Anche se ricorrerà il decennale della sua morte, un anniversario importante, come famiglia non è che volessimo organizzare qualcosa, poteva essere sufficiente il ricordo con una messa, come negli altri anni. E la faremo alle 17 presso la chiesa di San Pio X, nel quartiere Balduina. I ragazzi della Nord, che hanno sempre ricordato Gabriele in questo decennio, vogliono farlo in modo speciale e ci hanno coinvolto nel sit-in organizzato per sabato alle 14,30 sotto la Curva Nord. Sono state invitate tutte le tifoserie d’Italia. Il raduno è previsto proprio in quella zona di passaggio, tra la Curva e la Tevere, che per noi è il pezzo di stadio più rappresentativo. Lo percorrevamo, con papà, per andare in Tevere. E poi per andare in Curva Nord, io e Gabriele, da soli. Lui è stato più fortunato perché in Curva ci è venuto con me, è stato avvantaggiato, era accompagnato dal fratello maggiore. Io ci sono andato più tardi».
GIORGIO: «Il fatto che ci sia questa attenzione ci fa piacere e ci gratifica, lui sarà contento. Gabriele controlla e vede tutto, ne sono sicuro, soprattutto vede le partite della sua Lazio. Avrà trovato una nuvoletta e sarà lì a tifare».

La morte di Gabriele ha unito tutta la città di Roma. E’ raro che sia accaduto.
CRISTIANO: «E’ vero, in altri casi non c’è stata aggregazione. La morte di Gabriele è stata vissuta in modo non divisivo, ha unito. E’ anche vero che proprio dalla gente è arrivata la vicinanza più spontanea, tante persone ci hanno accompagnato dall’inizio della tragedia e questo ci ha stupito. Anche una piccola telefonata è riuscita a durare per così tanto tempo. La vicenda, per il politicamente corretto, era scomoda. E per il non politicamente corretto non era tanto comoda. La morte di Gabriele non è rientrata tra le morti per le quali sono state fatte bandiere».
GIORGIO: «Ancora oggi vengo fermato per strada da tifosi della Roma e della Lazio. Penso di essere stato l’unico ad essere ospitato in Sud con la sciarpa biancoceleste. Essere ricevuto in quel modo, con grande amore e affetto, è stato speciale, mi fa venire i brividi. Gabriele ha unito tutte le tifoserie, quella laziale e quella romanista, ma anche quelle di ogni città d’Italia».
CRISTIANO: «La contrapposizione che c’è stata inizialmente, che ha messo di fronte tifoserie e forze dell’ordine, non è stata voluta nè cercata dalla nostra famiglia né dalle tifoserie stesse. Molti hanno cercato di strumentalizzare. Inizialmente è stato un problema di comunicazione da parte delle agenzie che venivano pubblicate. C’è una telefonata delle 9,30 dell’11 novembre, tra il 118 e la sala operativa della Polizia, ed era già tutto chiaro. E invece, sino alle 11,30, si è parlato di scontri tra tifosi, si è detto che era partito un colpo ed era morta una persona. Alle 18, ad Arezzo, la versione era ancora questa. Sentivo la conferenza del Questore di Arezzo in diretta e nel frattempo guardavo il vetro della macchina forato dal proiettile. Dire che si era sparato per aria era inimmaginabile. Che deviazione avrebbe dovuto avere il proiettile per finire lì, in quel punto? Il processo lo ha dimostrato. Appena ho sentito parlare di deviazione del proiettile, conoscendo un po’ della cultura nostrana, mi si sono rizzati i capelli, ho capito che dovevamo stare in allerta. Poi si è parlato della deviazione della rete, vicina alle barriere new jersey. L’importante è che il processo, non quello di Arezzo, abbia portato la verità alla luce. Ad Arezzo c’è stato un tecnicismo del diritto così sottile, che non tutti gli addetti ai lavori possono conoscere: evidenzia un discrimine tra il dolo e la colpa. L’agente Spaccarotella, alla fine, ha ricevuto una condanna per omicidio volontario e dolo volontario. La prima sentenza parlò di omicidio colposo aggravato. Quindi c’era una differenza che spostava la responsabilità. Se non fosse stato riconosciuto il dolo eventuale in questa situazione...».

Cristiano, lei è avvocato. Questo l’ha aiutata?
CRISTIANO: «Conosco a memoria ogni atto, ogni pagina, ogni documento del processo. Il problema, dopo la sentenza di Arezzo, è stato rimettermi la toga sulle spalle. Mi pesava. Tu vedi che viene spostata l’asticella in modo scientifico. Dopo aver seguito tutto l’iter ti fai delle domande. Dopo l’imbarazzo della sentenza abbiamo reagito in modo stizzito, poi ci siamo impegnati per l’appello che si è celebrato a Firenze. Fu riformata la sentenza, l’imputato fu condannato per il reato commesso e la Cassazione confermò il verdetto. Arezzo, addirittura, scrisse nelle motivazioni che l’agente aveva mirato alle gomme, era l’unico modo per “salvarsi”. Spaccarotella questo non lo dichiarò mai. Per sollevarsi da ogni tipo di responsabilità disse che aveva sparato per aria. Ma c’erano dei testimoni, l’avevano visto mentre sparava. Un colpo lo sparò in aria, uno diretto».

Spaccarotella vi ha mai guardato negli occhi?
GIORGIO: «No. L’unica volta che l’abbiamo incontrato in aula, ad Arezzo, non l’ha fatto».

Vi ha mai chiesto scusa?
CRISTIANO:
«La cosa che fa riflettere è che Spaccarotella ha perseverato in questo atteggiamento. Ormai è passato qualche anno, dovrebbe aver avuto modo di pensare, di riflettere. Non ha mai maturato un pensiero né nei confronti della vita che ha spento né rispetto a ciò che ha causato a chi è rimasto in vita. Si è sempre parlato di una fantomatica lettera che avrebbe inviato e non è mai stata recapitata. Se è successo davvero questo, allora scrivine un’altra. Queste sono cose da uomini. Non devono essere richieste, ma devono essere sentite. La solidarietà di maniera non mi piace». Quali sono i ricordi del papà e del fratello?
GIORGIO: «Gabriele era un ragazzo come tanti altri, gli piaceva ancora giocare, vivere gli amici, fare il dj. Oggi sarebbe stato un papà come lo è Cristiano. E io, anziché avere due nipotini, ne avrei quattro. Gabriele era il cocco della mamma. Cristiano a volte si arrabbiava, c’era sempre una parola in più per Gabriele, era il piccolo. Era un ragazzo generoso, si faceva volere bene da tutti».
CRISTIANO: «C’è da correggere una parte, io non mi arrabbiavo. Prima dei miei figli, che sono nati da poco, il più grande ha 8 anni e si chiama Gabriele come lo zio, mio fratello era la persona che amavo di più. Non sono mai stato geloso, com’era normale, che gli si perdonasse qualcosa e si arrabbiassero con me. Ho condiviso tutta la sua vita. La passione per la musica inizialmente gliel’ho infusa io. A me passò subito. Lui approfittò di tutto l’armamentario che avevo acquistato e si mise a suonare. Mi ricordo quando papà e mamma lo portarono a casa dall’ospedale, era appena nato. Passai non so quanto tempo a guardarlo nella culla. Abbiamo seguito lo stesso percorso. Abbiamo giocato a calcio nelle stesse squadre, siamo andati nelle stesse scuole. Sono contento perché, anche se purtroppo la sua vita è stata breve, non c’è un giorno che non abbia vissuto con mio fratello. Ed è bello sentirlo ancora profondamente vicino. C’è un filo di sangue che non si interrompe. Dopo che è accaduta la tragedia, sono diventato papà. Non sapevo mia moglie fosse incinta. Ho sognato un bambino, sentivo che era mio fratello. Era su un girello per bimbi e dopo 15 giorni mia moglie ha avuto il ritardo. Dopo 3-4 mesi abbiamo saputo che avremmo avuto un maschio. Gabriele è sempre con noi».

Qual è stata la partita più bella della Lazio che avete visto con Gabriele?
CRISTIANO:
«Lui è stato fortunatissimo, si è goduto i tempi di Cragnotti alla grande. La prima partita che abbiamo visto tutti e tre insieme, io, lui e papà, è stata Lazio-Vicenza, quella di Fiorini. Eravamo in Tevere. Ce lo trovammo quattro file più giù. I tifosi lo abbracciavano, gli regalarono la sciarpa. La più bella forse è la finale di Parigi contro l’Inter. Andammo in Francia in pullman, 48 ore di viaggio per 90 minuti di partita. Due giorni che furono un secolo. Chi non prova questa passione così forte non riesce a comprendere. E’ stato bello aver vissuto lo scudetto in Curva Nord, ascoltando la partita di Perugia. Abbiamo fatto in tempo a vedere insieme il gol di Di Canio al derby. Ci sono tanti ricordi».

E’ papà Giorgio ad aver trasmesso la passione?
GIORGIO:
«Io e tutti i miei amici, erano come degli zii per loro. Eravamo un gruppo di quattro. Ho iniziato ad andare allo stadio con mio padre nel 1958, ininterrottamente fino al 2002-03. E’ stato un percorso vissuto tutti insieme, poi la vita purtroppo è stata più dura con qualcuno. Gli eventi mi hanno un po’ allontanato dallo stadio. Adesso mi sto riappassionando. Come diceva Cristiano, vedere Inzaghi che esulta, che insegue i suoi giocatori, che li abbraccia, regala emozioni».

Tornerà mai allo stadio?
GIORGIO: «Il problema dello stadio ce l’ho, faccio fatica ad andarci. Ho perso anche gli amici del cuore, vivevamo la Lazio assieme, in maniera intensa. Sono rimasto solo. Di sicuro questa Lazio meriterebbe un po’ più di pubblico, me compreso».
CRISTIANO: «Io sono tornato allo stadio con molta fatica per essere presente alle iniziative organizzate per mio fratello. Sino allo scorso anno non ero stato all’Olimpico per vedere la partita normalmente. Ci sono tornato anche grazie a mio figlio Gabriele. I ragazzini si appassionano allo stadio, non potevo permettere si sbagliasse... la madre e i nonni materni sono dell’altra “parrocchia”. E così ho deciso, da laziale, di tornare con lui. Mi sono fatto forza e siamo andati. Dico grazie ai due Gabriele, agli amici miei e di mio fratello, mi hanno coccolato, mi hanno fatto riavvicinare, ed è stata una cosa emozionante. Solo chi non ha condiviso l’emozione del calcio non può capire. Adesso sto andando allo stadio quasi regolarmente, anche con mio figlio. Ha già visto la prima finale, quella di Coppa Italia, in Nord. Mi divido un po’ tra la Tribuna, quando c’è lui, e la Curva. E la sorella Greta è ancora più laziale di Gabriele, la madre pensava che diventasse romanista. La femminuccia, vedendo il fratello maggiore con la bandiera, si è legata alla Lazio».

E’ una passione che si tramanda di padre in figlio...
CRISTIANO:
«E’ inevitabile. Mio figlio Gabriele porta lo stesso nome dello zio. A volte mi chiedo se ho fatto bene a darglielo. Di sicuro sì, lo porta orgogliosamente. Da papà ti poni la domanda. Ha 8 anni, la storia dello zio non gliel’ho raccontata, sa che sta in cielo. Qualcosa ha capito. I bambini sono spugne, sentono quello che dicono i genitori. Gabriele a volte mi ha parlato di pistole, di spari. Chiamarlo Gabriele è stato il primo pensiero, il primo desiderio che ho avuto quando ho saputo che aspettavo un figlio maschio. Lo zio sarà il suo angelo custode».

Quando Gabriele d’estate andava in tour da dj portava il fratello?
CRISTIANO:
«Mi invitava spesso. C’erano ragazzi più piccoli. Molte serate le ho vissute e sono sempre state divertenti. Era apprezzatissimo anche da dj. Suonava a Roma, anche in montagna, al mare, al Tartarughino in Sardegna. Era anche un latin lover (risata, ndr). Una volta suonò a Cortina, incontrò Lotito. Di Gabriele si conosce la foto che è diventata un murales. Si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima, i suoi gli rendono giustizia. Non perché io sia il fratello, ma aveva davvero un cuore nobile. Era premuroso con chi stava in difficoltà, aveva un pensiero per i più deboli, cercava di coinvolgere chi era in difficoltà, era un anti-bullo, un anti-prepotente». Quante volte vi è venuto in mente: se non fosse partito dopo la serata al Piper...
GIORGIO: «La sera prima, mentre si preparava per andare al Piper, gli dissi “domani non vai a S.Siro a vedere Inter-Lazio vero? E’ una partita che non ha nessun senso, farai tardi, sarai stanco”. Mi rispose “no, no, papà, non credo che andrò, farò tardi”. Ci siamo lasciati così. La mattina neanche ho chiamato casa, immaginavo stesse dormendo e invece...».
CRISTIANO: «Gli aveva detto una bugia (risata, ndr), non c’era partita che saltasse, in casa o in trasferta».
GIORGIO: «Lo so, ma io ci speravo... Evidentemente aveva un appuntamento. Era scritto che sulla sua strada avrebbe incontrato questo Spaccarotella, che anche lui si rovinasse la vita, ha dei figli piccoli. Speriamo che esista un altrove cosicché Gabriele e tanti altri ragazzi che ci hanno lasciato possano godere di qualcosa di più importante della vita».

L’11 novembre alcuni giocatori si rifiutarono di giocare con il lutto al braccio. cosa avete provato?
CRISTIANO:
«La spiegazione fu allucinante, fu peggio della non volontà di giocare portando il lutto, dissero “poteva essere un mafioso”».

Non c’è mai stato un minuto di silenzio, potrebbe essere disposto adesso, 10 anni dopo?
GIORGIO: «No, ci sono troppi minuti di silenzio. Chi vuole ricordare Gabriele lo ricorda comunque. Devo dire la verità, ho avuto modo di conoscere anche persone che mi hanno dato la soddisfazione di capire che sarebbe stato punito ciò che era accaduto. Primo tra tutti l’ex prefetto Manganelli, capo della Polizia a quel tempo, lo ricordo con tanto affetto. Prese subito posizione, era un grande uomo».
CRISTIANO: «Fu un’assunzione di responsabilità. Tutto il contorno era più resistente per motivi elettorali, chiamiamolo così, alla fine gira tutto lì. E per non andare a impattare contro critiche, per me corrette, perché non si spara su un’autostrada in quel modo. Come dicevo prima, siamo rimasti incastrati tra il politicamente corretto e il non politicamente corretto. L’importante è che sia emersa la verità. Un anno in più o in meno di galera non ci avrebbe ridato Gabriele. Volevamo la verità dei fatti. Parlare di colpi sparati per aria era un’offesa ulteriore. Manganelli aveva capito tutto benissimo. Si era trattato di un pazzo scatenato a sparare in quel modo in mezzo ad una strada. Di cosa parliamo?».
GIORGIO: «A me non serviva la pena esemplare nei confronti di Spaccarotella, a me serviva il riconoscimento del reato. Spaccarotella potrebbe essere mio figlio. Ha fatto una stupidaggine grande quanto tutto il mondo e forse ancora oggi non se n’è reso conto. Cattiveria? Bisogna parla re proprio di stupidità. Ha fatto una cosa che non sta né in cielo né in terra, senza motivo. Non riesco ancora a spiegarmela. Sparare in autostrada, una pazzia».
CRISTIANO: «C’era anche un contenitore di gas vicino. Poteva chiedere che venisse fermata la macchina al primo casello... Vedere l’immagine di Gabriele in tutti gli stadi d’Italia e d’Europa, per noi è importante. Vedere il suo volto ha un grande valore sentimentale, è come se fosse fisicamente su ogni campo dove c’è la Lazio. Gli amici che non hanno mai fatto mancare affetto sono amicizie nate allo stadio. Il bello dello stadio è proprio questo, non c’è quartiere, non c’è ceto sociale. Si sono rivelate le amicizie più vere».
GIORGIO: «Da dieci anni la domenica vado a trovare Gabriele. Quando la Lazio gioca in casa trovo sempre mazzi di fiori portati dalle tifoserie che vengono a Roma. Farsi carico di andare al cimitero di Prima Porta è ammirevole. Ci sono tanti ragazzi che hanno veramente un cuore, a differenza di tanti adulti».

Giorgio e Cristiano, con quali parole volete si concluda questo nostro incontro?
CRISTIANO:
«Possiamo fare un cenno alla mamma. Non si è più ripresa da quel giorno e questo bisogna dirlo. Abbiamo cercato di proteggerla, ma non puoi proteggerla dal dolore più grande, dal dolore più innaturale. Perché sopravvivere al proprio figlio è innaturale. Adesso che sono diventato padre me ne rendo conto».


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