Giovanni Lodetti: «Gattuso, un diavolo come me»

È stato il Terzo Polmone di Rivera e negli Anni Sessanta un pilastro del Grande Milan euromondiale. Racconta la sua vita da mediano che somiglia molto a quella di Ringhio
Giovanni Lodetti: «Gattuso, un diavolo come me»
Xavier Jacobelli
9 min
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MILANO - Arriva a piedi. Senza correre. Se lo può permettere, lui che, quando giocava, di chilometri ne ha macinati così tanti da non fermarsi mai. Mica per niente, Liedholm lo chiamava Bikila. E, mica per niente, Giovanni Lodetti è stato il Terzo Polmone di Rivera. Anche se, per fare la pace con il Capitano, ci sono voluti trent'anni. E c'è voluta l'intitolazione di un campo sportivo a Giacomo Bulgarelli, amico e testimone di nozze di Giovanni. L'affabile signore che ho davanti, sciorina la memoria di un elefante e a molti fischieranno le orecchie. «Una volta smesso, volevo tanto fare l'allenatore dei ragazzi. Sono arrivato primo su settanta partecipanti al corso per i tecnici di terza categoria, tenuto a Genova da Giovanni Ferrari. Quando Rivera è diventato vicepresidente del Milan, l'ho chiamato per dirgli: sarei entusiasta di lavorare nel settore giovanile. Tre mesi di silenzio assoluto e poi, vengo a sapere che l'incarico era stato affidato a Ferrario: Rivera non mi ha fatto manco una telefonata. Dev'essere un vizio. Pensa che l'estate scorsa, dopo 17 anni di fila come opinionista, la tv con la quale collaboravo non mi ha nemmeno chiamato per avvertirmi che non rientravo più nei suoi programmi. Ma si può? Sai che cosa mi ha fregato, a volte, nella vita? Essere una persona per bene. Eppure, a 75 anni, sono fiero di essere una persona per bene. Ho raccolto ciò che ho meritato perché ho sempre fatto tutto con la passione e, la passione, credimi, non è una cosa che si compri al supermercato. L'ho imparato dai miei genitori».

LO ZOCCOLO DURO - Un antico adagio contadino sostiene: un frutto non cade mai lontano dalla pianta. Vero, Giovanni? Lui sorride con la bonomia che l'accompagna da quando era alto così e giocava a pallone all'oratorio di Caselle Lurani, Bassa Lodigiana, all'epoca 500 abitanti. Il parroco era don Giovanni Delle Donne, il suo pigmalione. «Il mio cartellino gliel'hanno pagato centomila lire e una muta di maglie. Avevo tre fratelli. Due, purtroppo, se ne sono andati troppo giovani. Papà faceva il falegname, io l'apprendista meccanico. Ho cominciato a correre sul campo dell'oratorio e non ho smesso più. Un po' come Gattuso, sai? Mi piace Rino, mi piace tanto. Domenica sera, quando ho visto come l'hanno festeggiato i suoi giocatori dopo la vittoria sulla Roma all’Olimpico, ho avuto la conferma di ciò che pensavo da tempo. Rino ha risvegliato l'anima dei rossoneri. Ha fatto capire loro che cosa voglia dire l'amore per la maglia, l'attaccamento alla maglia: questo vogliono i tifosi, questo meritano i tifosi. Poi, puoi vincere o perdere: non importa. Gattuso è milanista dentro e Dio solo sa quanto il Milan avesse bisogno di ritrovare questo sacro fuoco. Lo stesso che avevamo noi con Rocco e Viani, Trapattoni e Cesare Maldini, Ghezzi, Salvadore, Trebbi, David, Barison, Fogli, Sormani, Prati, Cudicini, Schnellinger e tutti gli altri. Ogni grande squadra deve avere uno zoccolo duro e, di questo zoccolo duro, i ragazzi cresciuti nel vivaio sono il nucleo. Adesso, la prima cosa che faccio quando il Milan scende in campo, è contare quanti italiani vengano schierati. E dico bravo, Ringhio, perché vedo Donnarumma, Calabria, Locatelli, Cutrone, Abate, Montolivo, Romagnoli, Bonucci, Borini, Bonaventura, Antonelli, Conti che tornerà presto. Si vede che c'è feeling, c'è empatia fra l'allenatore e i calciatori. Io, come allenatore ho avuto Rocco. Su di lui, potresti scrivere dieci puntate dei Patriarchi, se ti raccontassi tutti gli aneddoti che lo riguardano». Dimmene uno. «Milanello, arriva un giornalista, tanto noto quanto antipatico al Paròn. Che, a me e al Trap, fa: 'Ragazzi, vi devo chiedere un favore. Io lo porto sotto il pergolato e voi gli tirate un gavettone'. Come come? Sgrano gli occhi io. E Rocco: 'Voi fate il gavettone, andrà tutto bene'. E l'avete fatto? Giovanni sogghigna: «Assolutamente sì». E il giornalista vi ha beccato? «Assolutamente no. Era bagnato fradicio, una iena: e il bello è che Rocco gli promise severi provvedimenti contro quei 'mona', autori del gesto». E poi? «E poi, Rocco entra negli spogliatoi, si avvicina a me e al Trap, strizza l'occhio e sbotta: 'Missione compiuta'. Che fenomeno».

IL COLPO BASSO - Al piano di sotto, alcuni avventori del bar dell'Iris, giocano a scopa. Dicono che, a carte, Giovanni sia tremendo e non ci stia mai a perdere. Si schermisce. Qui si sente a casa, fra amici. Invece, in Messico e al vertice del Milan, scopre di averne pochi, nel '70, quando lo fanno fuori dalla Nazionale e Carraro lo cede alla Samp per Benetti. Sono trascorsi quasi 48 anni, ma la ferita brucia ancora sulla pelle di Giovanni. Ne ha ben donde. Il colpo è stato basso. «Anastasi si fa male: Valcareggi convoca il milanista Prati che, avendo la caviglia gonfia come un melone, non avrebbe giocato mai e l'interista Boninsegna. Enrico Ameri mi mette la pulce nell'orecchio. All'epoca, in Nazionale comanda il blocco Inter: c'erano Mazzola, Domenghini, Bertini, Facchetti, Burgnich e Vieri. Ameri mi fa: ‘Scusa, Giovanni, voi del Milan in azzurro siete in quattro (tu, Rivera, Prati e Rosato). Se quelli dell'Inter non si toccano e se il ct ha chiamato Prati, rossonero, a casa va un altro rossonero. E siccome Rivera e Rosato sono titolari...». «Scopro che Ameri ha ragione, nonostante Bearzot e Vicini, due galantuomini, mi rassicurino: peraltro, i miei test di resistenza all’altura sono i migliori. Ma, anche Enzo e Azeglio sono all’oscuro di tutto. Telefona mia moglie Rita dall’Italia: 'Giovanni, i giornali scrivono che a tornare a casa sarai tu'. Scrivono il vero. Mi convocano Mandelli, Valcareggi, il dottor Fini e un altro. Mi dicono che piange loro il cuore, che posso andare in vacanza con mia moglie ad Acapulco, che percepirò comunque il premio di partecipazione ai Mondiali e bla bla bla, ma tocca a me partire». E tu? «E io rispondo: andate tutti a fare in culo, tenetevi Acapulco e i vostri soldi. Vi dovete solo vergognare. Adesso, fatemi il biglietto: voglio partire domani stesso. Scusami, ma, quando ci ripenso, mi viene addosso la stessa rabbia di allora. Non è finita. All'epoca, il mercato per i ventidue al mondiale era chiuso. Io, però, non ero più fra i ventidue. Torno in Italia e, guarda caso, il Milan mi vende alla Samp per Benetti. A Genova non trovo subito l'accordo sull'ingaggio. Chiedo udienza a Carraro, presidente del Milan. Gli domando di venirmi incontro. Sai che cosa mi risponde, gelido, come se i miei dieci anni rossoneri, gli scudetti, le Coppe dei Campioni non fossero mai esistiti? 'Lodetti, lei non è più un giocatore del Milan. La questione non ci riguarda'. Costui è lo stesso personaggio che, subito dopo il mondiale, aveva chiamato me, Rivera, Prati e Rosato per affermare solennemente: 'Lodetti è stato rimandato a casa, Rivera è stato umiliato con i sei minuti, adesso gli facciamo vedere noi'. Infatti, ho visto e, ancora una volta, non mi ha telefonato nessuno: né Rocco né Rivera, né altri. Gli unici che si sono comportati da signori con me sono stati solo due». Chi? «Giacinto Facchetti, il capitano della mia Italia campione d'Europa nel '68 e Silvio Berlusconi». Berlusconi? Ma il Milan non l'ha comprato nell'86?

LE CHIAVI DI PORTOFINO - Giovanni pronto: «Certo che l'ha comprato nell'86, ma, prima d'allora, per un lungo periodo, io e Berlusconi siamo stati vicini di casa e siamo diventati amici. Sai che cosa ha fatto, quando sono rientrato dal Messico? Ha suonato al campanello: 'Ciao, Giovanni, queste sono le chiavi della villa di Portofino. Tu e Rita andate là e staccate la spina. Potete rimanerci per tutto il tempo che volete'. In quel periodo, se non avessi avuto mia moglie accanto a me, sarei andato fuori di testa, tanto grande era la delusione che avevo in corpo per la Nazionale. Nel corso del tempo, allaccio ottimi rapporti anche con il Commendator Luigi, il papà di Silvio. E quando, nell’86, il figlio sta per acquistare il Milan, il Commendatore non ne vuol proprio sapere e mi martella: 'Giovanni, diglielo tu al Silvio di non farlo. Si prenderà un sacco di rogne'. Io replico sempre: ma no, Signor Berlusconi, stia tranquillo. Silvio salverà la società dal fallimento e torneremo a vincere. Si fidi. E così, sedici anni dopo che in Via Turati mi avevano scaricato, penso di avere fatto qualcosa di buono per il mio vecchio Milan. Buffa, la vita. Vero?». Camminiamo sul campo sintetico dell’Iris. Sostiene Giovanni: «Per i ragazzi del quartiere, l'Iris è un polmone di sport, di amicizia, di passione. Già, un polmone. I miei, però, sono tre». Scoppiamo a ridere. Di gusto.


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