Napoli, Var occhio guercio del demonio

Napoli, Var occhio guercio del demonio© LAPRESSE
Giancarlo Dotto
4 min

Lo ha detto la Crusca, si dice “il Var”, al maschile. Lo dice il buonsenso, così è un casino, al di là dei sessi e dei sensi. Un disperante casino. La moviola in campo, certo, come no? Un campo minato. Doveva essere l’occhio di Dio, è diventato l’occhio (guercio) del demonio. Il Var, usato così, è uno strumento diabolico. Può essere gestito solo da uomini che sanno cos’è il demonio.
A quasi due anni dalla sua introduzione in A, si può tracciare un primo bilancio di quello che ha dato e di quello che ha tolto. Ha cancellato gran parte degli abbagli che gridano vendetta (“maialate” le chiama Giampaolo, affiliato alla Crusca) ma non ha diminuito le polemiche. Anzi. Le ha esasperate. La gente grida più che mai vendetta. Fegati più che mai lesionati, coscienze oltremodo ferite. Prima c’era il comodo capro espiatorio, un omarino in carne, ossa e cornea, suscettibile di pescare granchi, imputabile qua e là di malafede, ma chissà. Le bocche tuonavano, eccome, ma tutto finiva nel grande mare diluente dell’”errare umano è”.
Oggi, l’alibi cade. C’è il super Io. C’è Dio. L’occhio infallibile della tecnologia. Un’arma micidiale. Dipende da come la usi. Il problema è che a gestirla non sono emissari di Dio, ma gli stessi omarini che, spesso, facevano disastri in campo. Le stesse umane debolezze, la voglia di strafare. Insomma, l’impulso a scimmiottare da Dio, senza esserlo. Risultato, tanto per dire l’ultima, si annulla un gol alla Spal in rimonta sulla Sampdoria per un fuorigioco microbico di Petagna e i tifosi della curva lasciano avvelenati lo stadio. Mai visto, neanche all’epoca di Lo Bello.
Tutto nasce da una follia ricorrente alias chimera che non smette di fuorviare gli umani. L’idea disumana che la “perfezione” e la “giustizia” siano di questo mondo. Non esisterebbe la vita e le galere scoppierebbero di carne umana difettosa se ci fosse una super moviola a spulciare ogni istante dei nostri atti e delle nostre parole. Tutto quello a cui possiamo tendere è attenuare lo scandalo quotdiano del disequilibrio, l’agguato costante del male e dell’ingiustizia. Concetto, tra l’altro, evidenziato nei principi fondamentali che regolano lo statuto del Var, per cui vanno corretti soltanto “gli errori chiari”.
E’ scritto. La domanda non è se la decisione dell’arbitro “è giusta?”, ma se “è chiaramente sbagliata”. Traduzione. Io Var vado a pungolare la coscienza dell’arbitro solo se sono al cospetto di un maledettissimo ed evidentissimo scandalo, tale da far crollare le colonne del tempio e arrossire il mondo intero. Se fermo tutto e cambio il corso delle cose per il centimetro di spalla o mezzo gomito significa che ho problemi personali, che cerco di guadagnare il centro di una scena che non mi spetta. E io arbitro, se Ronaldo impatta in quel modo su Meret, devo quanto meno farmi capitare un dubbio, ai tempi del Var. Ma, la summa antologica del come si possa maltrattare il Var la dà in una stessa partita, Fiorentina-Inter, tale Abisso di Palermo. Con lui, destino nel nome, si tocca il fondo. A partita scaduta, si ostina a concedere un mai rigore, sconfessando il Var, per un tocco di mano mai esistito. Sì dà la cecità, pur di non darsi del fesso.
Insomma, si torna sempre al tema di chi si è, dentro le mutande e alla guida del mezzo. Buonsenso. Questo serve. Il Var è sacrosanto, a patto che non sia né sacro, né santo. Non facciamo che il mediocre ma visibile e spernacchiabile ego degli arbitri sia affiancato da quello non meno mediocre e aitante, ma invisibile, degli uomini Var. Per cui, dopo aver ammazzato gli orgasmi del pallone con interruzioni e revisioni a catena, non hai portato a casa nemmeno uno straccio di giustizia.
Oggi sono e siamo, a turno, tutte vittime del Var. Violentati da un padre che si credeva buono ed equo. Il che, da sé, spiega bene che qualcosa di enorme non funziona. Usato cosi, il Var è un colpo alla nuca di un calcio già malato. Il guaio creativo è che si tratta di una strada senza ritorno. Non si può tornare al passato, bisogna immaginare il futuro. Una bellissima trappola. Dalla quale si può uscire solo con la superiore intelligenza del buonsenso. 


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