Pensare in piccolo è la grande sconfitta

Pensare in piccolo è la grande sconfitta© ANSA
Giancarlo Dotto
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Come nei romanzi di Jonathan Swift e nei laboratori folli del Dottor Cyclops l’incubo sta nel rimpicciolimento dell’eroe che, d’un tratto, si risveglia meschino e pollicino (-25 dalla Juventus, -17 dal Napoli) al cospetto di mostri e giganti che, fino a pochi mesi prima, erano i suoi pari o giù di lì, e si ritrova a battersi nella mischia poco edificante dei nani, dove le dai e le prendi senza un briciolo di domani. Il ridimensionamento della Roma si riflette nel pensiero sulla Roma ma anche nel pensarsi romanista. Allegri deve fare sforzi titanici alla vigilia per convincere i suoi che i giallorossi sono i rivali di sempre e De Zerbi dice, e lo pensa davvero, che verrà all’Olimpico mercoledì per fare il colpaccio.

Ecco la Roma di oggi, pensata “piccola” dagli addetti ai lavori, ma anche dai media. Che applaudono la “dignità” della sconfitta di Torino, figlia in gran parte di un Olsen in versione Octopus e di Var ultrazelanti, rimarcando un secondo tempo pieno di “orgoglio” e di “umiltà”. In passato, avevano celebrato il pareggio di Napoli, figlio di un catenaccio vecchio regime. Sconfitti ma dignitosi, assediati dai più forti, ma sempre umili e orgogliosi; per restare in tema, il pane quotidiano dei poveri e dei nati o diventati piccoli.

Gli stessi tifosi romanisti, vaccinati da una storia fatta di giganteschi soprassalti, più bassi che alti, sembrano aver rapidamente accettato questa Roma minore, con la santa rassegnazione tipica dei poveri, appunto. Non solo non vola una mosca o un vaffa a Trigoria, ma si accetta anche in silenzio che resti in panchina un allenatore sul quale pesa il sospetto, più di un sospetto, di un accanimento mai così poco terapeutico. Senti la gente, dai un’occhiata a tutto quello che arriva, nel tuo cellulare e nella grande discarica dei social e, nell’inevitabile mucchio degli insulti militanti, filtra compassionevole il sentimento del “sì, però, dai, nel secondo tempo il pallino, che mai è stato un pallone, l’abbiamo tenuto noi… che se poi battiamo il Sassuolo e la sfanghiamo a Parma…”. Piccinerie, insomma. Senza nemmeno l’alibi del “piccolo uomo” spedito a Milano. E senza considerare che, lasciare al gattino innocuo il gomitolo con cui baloccarsi per una mezz’oretta, senza far danni, è il lascito padronale, in questo caso juventino, per eccellenza.

La differenza è che a Roma, nella Roma, diventare piccoli e innocui, non viene vissuto come un incubo. Meno che mai come disastro, nel senso di caduta dal mondo degli astri. Evocando la grandeur del futuro, sempre meno, ci si trascina nella pochezza del presente, sempre più. Una squadra che ogni santi novanta minuti deve scalare il Golgota con i gomiti e le ginocchia per acchiappare i suoi punticini, che sia Genoa, Parma o Sassuolo, sempre il batticuore a cassa. Un allenatore che dopo due anni tortura se stesso, i suoi giocatori e i suoi tifosi, con i propri dubbi, più Tafazzi che Amleto, i suoi anatemi, la sua rabbia e la sua debolezza, la faccia sempre più buia (ebbene sì, sono faccista). Più incompreso che mai. Mai così buia come la faccia di chi lo difende a oltranza. Nell’inerzia che avvolge la città, a partire da Trigoria, la domanda è: i due stanno difendendo la Roma o se stessi?

Nel caso della Roma, Cyclops, il dottore folle che rimpicciolisce gli umani, ha un nome preciso. Monchi non è folle e tantomeno ostile. Probabilmente, ci sa o ci ha saputo fare. Forse, ha solo sopravvalutato se stesso. Forte delle sue radici, non ha compreso quanto fossero forti. Quanto le sue imprese a Siviglia fossero figlie di essere lui stesso figlio. Di quella madre terra. Da Siviglia a Roma, la distanza è tanta. Monchi l’ha resa enorme. Dopo quasi due anni, l’andaluso resta radicalmente uno straniero a Roma. Si è comportato, ha parlato, ha venduto e ha comprato come uno straniero. Estirpando giocatori empatici dal cuore della lupa e ripopolando lo spogliatoio di ragazzi venuti da ogni dove, magari anche bravini, non tutti, qualcuno strapagato, altri malandati, altri ancora spaesati, alteri o apatici, una mescolanza di generi che ancora oggi fanno fatica a chiamarsi per nome in campo. Attorno a quel che resta della vecchia, recentissima Roma, il gigante ferito De Rossi, l’altro mai domo Manolas e il vago Dzeko. Si dice che le stelle stiano a guardare. Una balla. Loro si muovono, splendono, gravitano, collassano. Tutto si muove nell’universo, tranne la Roma. Che aspetta chissà cosa. Forse gennaio? Puoi correggere i tuoi errori solo se li sai riconoscere. L’ha detto anche un papa straniero: “Correggetemi se sbaglio”. Può dirlo anche lei, Monchi, straniero più che mai, che ha sbagliato tutto o quasi. Ammetterlo non sarà una tragedia. I greci la chiamavano catarsi. Il tempo c’è , forse, per rimediare. Magari sarà la volta che metterà un piede a Roma.


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