Sassuolo, Di Francesco: «Sono zemaniano, insegnare è una vittoria»

Il tecnico del Sassuolo: «Anch’io gioco per i risultati: in Italia non si può fare diversamente. Ma allevare i talenti è più bello. E poi funziona, come al Barça...»
Sassuolo, Di Francesco: «Sono zemaniano, insegnare è una vittoria»© ANSA
Walter Veltroni
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ROMA - Conoscevo Eusebio Di Francesco giocatore, piedi buoni, velocità e senso tattico. Ho conosciuto da appassionato l’allenatore, che fa giocare alla sua squadra un calcio allegro e intelligente, aperto e moderno. Oggi parlo anche di una persona che mi ha colpito per la lucidità, la motivazione, la sincerità con la quale espone le sue idee sul calcio. E non solo.

Cominciamo dal nome, un segno del destino?

«Era papà il grande tifoso di Eusebio. A casa mia, quando nacqui, ci fu una lotta tra mia madre e mio padre. Lui insisteva per la stella del Benfica, mia madre, più prosaicamente, voleva un nome “normale”. E fu così che io mi ritrovo con due nomi, mi chiamo Eusebio Luca. Una complicazione anagrafica e burocratica micidiale. Persino il codice fiscale è un rebus. Però forse mi ha salvato in tante circostanze e mi ha consentito di essere un buon contribuente, sempre. Io Eusebio, quello vero, l’ho persino incontrato, in un torneo di beneficenza. Mi sono fatto una foto con lui. Ero molto orgoglioso. Ma poi per sbaglio l’immagine si è cancellata. E quello che ci rimase peggio fu mio padre….».

Voi avete un ristorante ben avviato a Sambuceto, in Abruzzo…

«Sì abbiamo questa attività da quarantatré anni. Prima era più piccola, poi siamo cresciuti. E’ un albergo ristorante con un clima molto familiare. Io da piccolo mi divertivo a lavorare lì, portavo l’acqua a tavola».

Come è nata la passione per il calcio?

«Il mio sport era il ciclismo. L’Abruzzo è terra di campioni come Taccone. Sappiamo faticare. Quando avevo tra i sei e i nove anni correvo per le “Frecce azzurre”. Però mi piaceva tanto anche giocare al calcio. C’era uno spiazzo grande, al paese, che noi facevamo diventare lo stadio dei sogni mettendo due bombole di gas, per fortuna vuote, a fare da pali. Allora passavano molte meno automobili di oggi, e noi potevamo fare le nostre partite in pace. Poi il tecnico della squadra di ciclismo mi pose di fronte ad un aut aut: o la bicicletta o il pallone. E io scelsi. E scelsi bene».

E come finì a diciotto anni in serie A?

Ero davvero bravino, i più grandi volevano sempre che giocassi con loro: è un indicatore abbastanza infallibile... Poi mi venne a vedere un mediatore che mi portò a sostenere un provino con l’Empoli. C’era il tecnico della prima squadra, Salvemini, a esaminarmi. E io feci una gran bella figura. Mi volevano a tutti i costi. Feci un provino anche con la Fiorentina. Ma avevo dato la parola all’Empoli e la mantenni. Fui acquistato per dodici milioni e mezzo, a quei tempi una bella cifra per la squadra di un piccolo comune. E, per di più, fu stabilito che se avessi fatto tre partite in prima squadra, al Sambuceto sarebbero andati altri dieci milioni. Grazie a quell’affare hanno potuto giocare diversi campionati dilettantistici. Ma le devo dire che avrebbero potuto investire davvero quei soldi per far crescere la società e purtroppo non avvenne».

Ricorda il giorno dell'esordio?

«Mi allenavo con la prima squadra. Giocavamo a Torino con la Juventus, partita persa. E di brutto. Sul quattro a zero Salvemini fece entrare il mio amico Nicola Caccia, pensi che subentrò a Walter Mazzarri, e il sottoscritto. Allora si marcava a uomo e a me toccò Massimo Mauro. Lo stesso che oggi mi intervista, in uno strano gioco dei ruoli. Io sono uno freddo, molto razionale, e non provai grande emozione. Ma i miei genitori sì, in famiglia fu un evento importante. Ero più felice per loro che per me. Avevano fatto grandi sforzi. E allora davvero era tutto difficile. Non c’erano tanti soldi in casa. Io ancora ricordo il mio primo maglione. Era rosso, lo comprammo, i miei ed io, con i soldi dei primi stipendi veri».

Mi fermo un attimo per chiederle una cosa, partendo da Salvemini. Come mai gli allenatori sono per lo più centrocampisti? Trapattoni, Capello, Allegri, Conte, Liedholm, Guardiola, Ancelotti, Paulo Sousa, Spalletti, Guidolin, Tardelli… Ed Eusebio Di Francesco.

«Il centrocampista è abituato a vedere tutte le fasi del gioco. Conosce l’attacco e la difesa. E vale per un buon centrocampista un principio che poi sarà utile anche da allenatore: l’importante non è guardare dove è la palla, ma dove la palla può andare».

Chi sono stati i mister più importanti nella sua carriera?

«Montefusco, Vitali, Cagni, Lippi, Scoglio, Orrico, Fascetti. Mi hanno insegnato il valore di tre principi fondamentali: sacrificio, corsa, compattezza del gruppo. E Cagni mi diede molto. Ho citato tutti allenatori italiani. Ma per me un riferimento fondamentale è stato Zeman. Non solo per la preparazione atletica, davvero devastante, ma per l’intelligenza tecnico-tattica del suo gioco. Un grande, davvero». 

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