Cairo: «È l'Europa l'orizzonte del mio Toro»

L'imprenditore e presidente granata: «Vogliamo tornare nell’élite, vincere una Coppa Italia. Ma oggi è la potenza dei soldi a stilare le classifiche»
Cairo: «È l'Europa l'orizzonte del mio Toro»© LaPresse
Walter Veltroni
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ROMA - Presidente Cairo, è vero che da ragazzo giocava “alla Claudio Sala”?

«Claudio Sala è stato un grande calciatore, capitano del Torino, io invece mi sono limitato a giocare nella Pro Sesto, che era  la formazione di Sesto San Giovanni. Era una buona squadretta, niente male. In effetti giocavo con il  numero 7, ala destra, e mi piaceva, come Claudio Sala,  indugiare nel tenere il pallone. Sono sincero: passavo poco la palla. In verità quello era un pregio ma anche un difetto: a volte era bello perché saltavi l’uomo e mettevi in condizioni un compagno di segnare, qualche volta invece la tenevi troppo e allora sentivi i rimbrotti dell’allenatore che ti diceva di non fare il “veneziano”. Quella maglia numero sette , nella storia del Torino, è stata importante. Prima di Sala l’aveva indossata Gigi Meroni, un genio del calcio, un miracolo di estro e classe. Ma lui è morto quando io avevo dieci anni e il mio campo da gioco era il cortile, solo il cortile. Per questo , quando, grande, ho cominciato a indossare degli scarpini, è stato Claudio  Sala la mia musa ispiratrice, nel calcio».

Com’era la sua stanza di bambino che amava il calcio?

«Vivevamo in una casa non tanto grande e io e mia sorella, che aveva un anno meno di me, dormivamo in un letto a castello. Le  possibilità della nostra famiglia non erano grandi, quello potevamo avere. E ci bastava. Era una stanza disordinata, piena di giochi. Allora mi piaceva molto l’autopista Policar. Mio  papà, che voleva stimolare le mie qualità e la mia passione calcistica , mi aveva regalato due palloni di spugna. Con quello vero distruggevamo la casa, invece col pallone di spugna eravamo autorizzati a giocare. E allora mia sorella, che aveva 14 mesi meno di me, diventava la mia compagna di squadra. Lei in porta e io attaccante. Grandi partite in una piccola stanzetta. Qualcosa a metà tra lo sport e la fantasia».

Faceva la raccolta delle figurine?

«Certo, avevo i miei album, i miei doppioni.E  andavo a fare gli scambi con un mio amico che era figlio unico di una famiglia abbastanza benestante. A ben pensarci, come livello di reddito, non diversa dalla nostra. Ma noi eravamo quattro fratelli, lui era figlio  unico. Se a me il mio papà prendeva 10 pacchetti di figurine ogni tanto, a lui gliene prendeva 10 tutti i giorni. Quindi lui aveva molte figurine più di me. Per questo io andavo da lui con il mio malloppo della Panini ed è lì che ho iniziato a fare le mie negoziazioni, del tipo : io ho questa figurina  che è molto rara , non la troverai mai, e come minimo me ne devi dare 10 delle tue».

Ha cominciato con le figurine e poi è arrivato a comprare il Corriere della Sera....

«Sì, in effetti, la necessità aguzza l’ingegno. Il mio obiettivo era finire l’album. Questo mio amico aveva tante di quelle figurine e tanti di quei doppioni... Cosa vuoi che gliene importasse di averle; magari io invece ne possedevo qualcuna che lui non aveva e alla fine era un modo per redistribuire un pochino la ricchezza. Risultato finale: io finivo l’album e lui anche. Io gli davo poche figurine, perché ne avevo di meno, lui me ne dava un po di più, perché il suo capitale era maggiore, però poi l’obiettivo raggiunto era lo stesso, cioè finire l’album entrambi. Quindi alla fine era una negoziazione nobile, una forma primordiale di giustizia sociale».

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