Quando Garrincha giocava a Sacrofano e la grande Danimarca degli Anni Ottanta

Un romanzo sugli anni romani di Garrincha, tra bevute al bar e partitelle dopolavoristiche con la maglia del Sacrofano di Dino Da Costa. E poi la favola della Danimarca tra gli Anni 80 e 90, culminata con il trionfo nell'Europeo del 1992
Quando Garrincha giocava a Sacrofano e la grande Danimarca degli Anni Ottanta
Massimo Grilli
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La storia di Garrincha, forse l’ala destra più forte nella storia del calcio, che giocò qualche partita con la maglia del Sacrofano - cittadina alle porte di Roma - è straordinaria, tanto sembra impossibile. Eppure rientra perfettamente nel personaggio di questo campione assolutamente incapace di gestire la sua vita, i suoi successi, la sua popolarità. Nato poverissimo in una favela brasiliana, con una gamba destra più corta di sei centimetri rispetto alla sinistra - forse poliomelite, forse malnutrizione - ma capace del dribbling più micidiale visto mai sui campi di calcio (leggendarie le sue finte che beffarono tutti i difensori di quella generazione, guardare su You Tube per credere) Garrincha fu campione del Mondo con il Brasile nel 1958 e 1962, diventando presto l’idolo di un intero popolo. Nel 1970, dopo un incidente stradale - lui era alla guida, forse ubriaco - nel quale aveva perso la vita la suocera, decide di trasferirsi a Roma, dove vive in un bungalow a Torvajanica, in compagnia del suo nuovo amore, la cantate Elza Soares, impegnata in alcuni concerti al Sistina. Sui mesi trascorsi nella Capitale - nel 1972 Garrincha e signora tornarono in Sudamerica - Jvan Sica, che già aveva colpito nel segno con il suo precedente libro, dedicato ad Arrigo Sacchi ed ai suoi demoni, ha costruito un bel romanzo, affettuoso e rispettoso della figura del Passerotto. Da noi Garincia - pronunciato e scritto così, alla romana - si divide tra le bevute nei bar, un ruolo poco amato di testimonial dell’istituto brasiliano del caffè e appunto le partitelle dopolavoristiche a cui lo aveva chiamato un altro ex campione brasiliano, quel Dino Da Costa già protagonista in maglia giallorossa. Il nostro sembra spesso assente, si lascia coinvolgere solo dai tifosi più giovani, regala ogni tanto in campo qualche magia delle sue, malgrado un fisico ormai rovinato dall’alcol, abbraccia altre glorie brasiliane, come Vinicius de Moraes e Toquinho. Soprattutto, sembra ormai presagire la sua fine, quella morte che lo coglierà a nemmeno cinquant’anni, nel 1983. «Quando a un brasiliano parli di Pelè, quello si toglie il cappello. Ma se gli parli di Garrincha, allora il brasiliano per la commozione piange».
GARINCIA, di Jvan Sica, Edizioni InContropiede, 163 pagine, 15,50 euro.

(furio zara) Naturalmente inclinata a generare simpatia, la Danimarca ha avuto una nazionale che in due momenti distinti della storia del calcio è salita sul palcoscenico come fanno i debuttanti, con quella timida sfrontatezza che a volte si rivela il piedistallo delle grandi imprese. Straordinaria per qualità dei giocatori e per l’idea di calcio che promuoveva fu la Danimarca che all’Europeo del 1984 venne eliminata in semifinale dalla Spagna soltanto ai calci di rigore; fu invece baciata dal dio del pallone - sempre in un’altra edizione dell’Europeo, stavolta del 1992 - la squadra che - arruolata all’ultimo momento al posto di una Jugoslavia colpita a morte dalla guerra - sbaragliò la concorrenza e trionfò vincendo un torneo che per svariati motivi assunse subito i contorni della favola. Il Pallone d’Oro Simonsen, quel gran sinistro di Lerby, Cenerentolo Elkjaer che da noi vinse lo scudetto col Verona, il genio di Frank Arnesen e l’eleganza fatta persona, ovvero Morten Olsen: questa la Danimarca - anzi la Danish Dynamite - di Sepp Piontek che nel 1986, in Messico, disputò un Mondiale bellissimo e dannato. L’enorme Peter Schmeichel che allargava le braccia e faceva ombra, il leggiadro Brian Laudrup fratello del magico Miki, Kim Vilfort con il dramma della figlioletta malata, i gol di Henrik Larsen: questa la Danimarca guidata da Richard Moeller Nielsen che cominciò e finì in una sola estate, quella leggendaria del 1992. Il titolo è molto bello: «C’è del calcio in Danimarca». Il libro si legge come un romanzo, appassiona e indaga. L’autore è Matteo Bruschetta, cui vanno fatti i complimenti per l’eccellente lavoro di ricerca. Prefazione di Federico Casotti, postfazione di Roberto Beccantini: due perle che impreziosiscono la prima vera indagine sul fenomeno Danimarca.
C’E’ DEL CALCIO IN DANIMARCA, il boom della Danish Dynamite Anni ’80 e la favola di Euro ’92; di Matteo Bruschetta, edizioni Amazon, 166 pagine, 14,99 euro


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