Stadio, un'idea geniale e folle

Favola di un giornale creato sulle rovine del Dopoguerra Un covo di talento e di magia, che nasce il 30 luglio 1945 e nel 1964 accompagna il Bologna a uno storico scudetto
Stadio, un'idea geniale e folle
Adalberto Bortolotti
14 min

Di «Stadio», una folle meravigliosa idea che portò Luigi Chierici, Remo Roveri e pochi altri volonterosi a creare un foglio sportivo nel 1945, quando ancora le rovine della guerra si ergevano imponenti a ricordare il fallimento di un paese e le ferite di una generazione scorata, di «Stadio», dicevo, avevo vissuto dall’inizio o quasi le vicende alterne per luce riflessa. Mio fratello Rino era arrivato a rimpolpare quella sparuta redazione subito dopo i padri fondatori, e con lui via via si erano ritrovati quelli che sarebbero poi stati le colonne di una pattuglia di fuoriclasse, i calciofili Alfeo Biagi e Giulio C(stava per Cesare) Turrini, da Parma, gli esperti di ciclismo Dante Ronchi e poi Ermanno Mioli, Luciano Parisini dalla fervida fantasia grafica, in tempi nei quali la grafica nei giornali era un puro optional, in seguito il grande Aldo Bardelli da Livorno, che da dirigente aveva portato la squadra amaranto a un impossibile secondo posto e da commissario tecnico aveva legato il suo nome all’infausta partecipazione azzurra ai Mondiali brasiliani del Cinquanta. Bardelli era il redattore capo, la sua personalità debordante lo portava a un inevitabile antagonismo con il direttore e fondatore Chierici, sicché la soluzione fu una divisione netta, anche territoriale (nel senso: stanze diverse) fra redazione calcio, di cui Bardelli era il padrone assoluto, e redazione ciclismo e varie, su cui imperava Chierici, col valido appoggio di Roveri. Roberto T(stava per Tranquillo, e se avete in mente nomen omen fate conto dell’esatto contrario) Fabbri, governava in proprio il feudo della pallacanestro, ma presto si trasferì nella sua Roma, a capo della redazione capitolina, forte di collaboratori prestigiosi come Ennio Viero e Cesare Mariani, più tardi integrati da Virgilio Cherubini. Fu forse la frequentazione, da giovane intruso, di quella splendida compagnia, a istillarmi il germe della vocazione, che al momento non era contemplata nei miei programmi di studente, puntati alla laurea in giurisprudenza. Eppure, la strada verso Stadio non fu esattamente rettilinea. Quando mi convinsi che il mio futuro si sarebbe giocato nelle tribune stampa più che nei tribunali, il primo approdo importante fu «Tuttosport». Corrispondente da Bologna, inviato alle Olimpiadi romane del 60, poi redattore distaccato a Firenze, con puntuali servizi sulle Nazionali a Coverciano. Onestamente non potevo chiedere di più. Ero felice, nei limiti in cui può esserlo un bolognese lontano (si fa per dire) da Bologna. Una domenica della primavera ‘63 ero allo stadio che ancora non si chiamava Franchi e mi stupii di vedere arrivare in tribuna Luigi Chierici. Un’autorità nel campo ciclistico, bartaliano di ferro, ma non troppo interessato alle vicende del pallone. «Direttore, che ci fa qui?». Mi rispose che aveva seguito il Giro di Toscana (grande arrivo: Vito Taccone davanti ad Adorni) e prima di rientrare a Bologna si era concesso un’irrituale parentesi calcistica. E poi mi disse: «Anzi, Bortolottino (mi chiamava così per via del fratello maggiore Rino), nell’intervallo dovrei chiederti una cosa». Ora, dovete sapere che Chierici non era un tipo di molte parole. Già un saluto era una degnazione. Aveva una sua filosofia spicciola che col tempo ho imparato ad apprezzare. «Guai ai titoli col punto interrogativo. Il lettore compra il giornale, e paga, per avere delle risposte, non per sentirsi fare delle domande». E se un redattore non era informato al cento per cento sulla sua materia, lo fulminava con lo sguardo: «Lo chieda a un giornalista». Cosa mai vorrà da me, pensai. Non è che sino ad allora mi avesse mai dato molta confidenza. Lo raggiunsi all’intervallo. Fu insolitamente gentile. «Stai facendo un buon lavoro. E debbo dire che Tuttosport sa come valorizzare i suoi giornalisti. Vorrei tanto che il mio Stadio avesse un po’ della sua freschezza». Cominciarono a suonare i campanellini. «Sai, finora abbiamo dovuto lavorare in economia. Ma pare che il dottor Pelloni (il potentissimo direttore editoriale) si sia deciso ad allargare i cordoni della borsa. E che possa fare finalmente anch’io una piccola campagna acquisti. In sostanza: tu saresti disposto a venire a Stadio?». In un momento mi frullarono in testa un sacco di pensieri. Addio Nazionale, servizi importanti. Mettersi in fila e tanta gavetta. E magari guadagnare pure meno (sapevo per esperienza familiare che a Stadio non correvano superminimi). Risposi: «Di corsa». E per me cominciò un’altra storia. In realtà per la gavetta non ci fu proprio il tempo. Avete presente la stagione calcistica 1963-64? Già, il caso doping, lo spareggio-scudetto (unico nella storia della serie A, per ora e sempre, visto che non è più contemplato dai regolamenti) fra Bologna e Inter, il titolo al Bologna, il solo conquistato nel dopoguerra e destinato a rimanere senza compagnia chissà per quanti anni ancora. Chierici era stato di parola, aveva rinforzato la redazione di Stadio addirittura con tre acquisti. Uno d’esperienza, il caro Cesare Trentini, altro bolognese in esilio che lavorava a Milano nel Guerin Sportivo del conte Rognoni come segretario di redazione. E poi due giovani promesse: con me, il vulcanico Italo Cucci, momentaneamente parcheggiato al Carlino Sera, ma sin d’allora impegnato su vari fronti e assorbito da mille interessi. Fummo tutti destinati alla redazione calcio, formalmente io e Trentini alla serie B, Italo alla C. Ma le gerarchie saltarono ben presto. Quando la tempesta del doping si scatenò sul Bologna che era in testa alla classifica, Bardelli ordinò la mobilitazione generale. «D’ora in avanti - tuonò in una memorabile riunione - non ci sono orari, né ferie, né settimane corte. Questa è una guerra e tutti siamo in trincea. Il concetto deve essere chiaro. Il Bologna è innocente e noi siamo qui per dimostrarlo. Tutto il resto passa in seconda linea». Bardelli, anche se non lo raccontava a nessuno, durante la guerra era stato il comandante del distaccamento all’isola d’Elba e aveva gestito il difficile momento dell’armistizio con grande fermezza. I ruoli si adattarono alle circostanze. Cucci, che al Carlino Sera aveva fatto esperienza di cronaca nera, seguiva la parte extrasportiva delle indagini, con pezzi onestamente memorabili, fra lo scoop e il romanzo giallo. «Perché abbaiò il cane di Coverciano?» resta un titolo così accattivante che in quell’occasione Chierici concesse la deroga e consentì il punto interrogativo. Io durante la settimana affiancavo Turrini nelle notizie e interviste di parte bolognese, mentre la domenica vestivo i panni dell’infiltrato in campo nemico, andando a seguire le partite dell’Inter, sospettata allora (a torto) di essere la mandante del complotto. Che giorni e che notti! Credo sia stato il periodo più bello di Stadio, indipendentemente dal fatto che il numero con lo scudetto del Bologna battesse ogni record di tiratura e di vendite. Per dire del coinvolgimento, due piccoli particolari. Al termine della partita di spareggio, il capitano del Bologna Pavinato si fece tutti i gradoni dell’Olimpico, raggiunse Bardelli in tribuna stampa e gli disse: Grazie, senza di voi non ce l’avremmo mai fatta! E noi della redazione, sciogliendo un voto fatto nei momenti bui, festeggiammo la vittoria del Bologna salendo a piedi sino al Santuario di San Luca. Immagino i sorrisini dei giovani colleghi, li perdono e gli auguro di vivere nei loro giornali tecnologici almeno un giorno così spudoratamente romantico. Forse l’euforia di quella stagione ruggente aveva assorbito troppe energie. O forse i tempi stavano cambiando, il Sessantotto per il calcio rappresentò il crollo dell’Italia di Fabbri, spogliata di ogni giustificata ambizione dai dilettanti nordcoreani ai Mondiali d’Inghilterra, ma il terremoto era di proporzioni infinitamente più ampie. Bardelli proprio sulle ceneri azzurre realizzò uno scoop memorabile. Ottenne dal povero Fabbri, che si era rifugiato nell’eremo di Camaldoli per sfuggire alle pressioni e all’ostilità dilaganti, un esplosivo memoriale. Lo aveva compilato raccogliendo le confessioni di alcuni suoi giocatori su un presunto complotto che ne aveva fiaccato le forze e le energie a Middlesbrough. Il tutto per rovesciare il governo del calcio e i suoi uomini guida, dirigenti e tecnici. Lo scandalo fu enorme. Fabbri si beccò una squalifica a lungo termine e il gruppo fiorentino andò al potere. Franchi presidente federale al posto di Pasquale, Valcareggi commissario tecnico al posto del vituperato Mondino, il dottor Fini direttore del centro tecnico di Coverciano. D’accordo, a pensar male, con quel che segue. Per Bardelli a Stadio fu uno spettacolare canto del cigno. Pasquale estromesso dalla FIGC, si consolò col suo ultimo amore, l’editoria, comprò la Gazzetta dello Sport e radunò la più imponente collezione di prime firme di tutti i tempi, pagando ingaggi calcistici. Da Brera, a Morino di Tuttosport, a Bardelli, oltretutto suo amico personale. Ricordo che a Stadio già circolavano voci sulla «fuga» dorata di Bardelli e una domenica mattina in auto, diretti a Torino per una partita, trovai il coraggio di rivolgergli la domanda diretta. «Dottore, è vero che ci sta lasciando?». Mi guardò come a scusarsi. «Lo so che non mi troverò mai bene come sono stato a Stadio in questi vent’anni. Ma credo di avere dei doveri verso la famiglia e non posso dire di no a chi mi offre il doppio di quanto guadagno oggi». «Con tutto il rispetto, non credo che la sua famiglia possa lamentarsi. E se il prezzo è complicarsi la vita…». «Un giorno capirai», concluse brusco. Non ho mai capito. Bardelli alla Gazzetta non fu più lui. Intristì in un ruolo marginale, tagliato fuori dall’area decisionale. E neppure Stadio fu più lo stesso. Aveva perso non un caporedattore tradizionale, quello non lo era mai stato, ma un polemista formidabile e un trascinatore impareggiabile. Italo Cucci l’aveva seguito nell’avventura e spiccò il volo. Alfeo Biagi prese il comando della redazione calcio e come si dice ricompattammo i ranghi. Ma stava finendo un’epoca. Breve, ma fondamentale, passo indietro. Nel 1966 il petroliere rampante Attilio Monti di Ravenna aveva acquistato il Resto del Carlino e la Nazione di Firenze, con annessi Stadio e il Tirreno di Livorno. Apparentemente un colpo di fortuna, l’ingresso dei grandi capitali e dei grandi investimenti dove sino allora si era molto lavorato di lesina. Ma era chiaro che agli interessi del petroliere erano funzionali i due giornali pilota, mentre Stadio e Tirreno costituivano un fardello al momento inevitabile. Stadio fu almeno un’utile cavia, per sperimentare l’ingresso del colore nel gruppo editoriale. Nel 1969 lasciammo con un po’ di magone la sede storica di via Montebello (dove al posto del giornale il Gruppo Monti costruì un hotel di lusso, il Royal Carlton) per una faraonica e avveniristica costruzione in periferia, sulla strada per Ravenna. Presentandolo in anteprima, con ampio uso di stampe a colori, Luciano Parisini, nuovo redattore capo, lo definì il gigante bianco delle Roveri. Tecnologie all’avanguardia, la stampa in rotooffset grazie a una gigantesca rotativa Goss capace di prestazioni mirabolanti. Non era più il tempo dei pionieri. E infatti nel 1972 il fondatore e direttore Luigi Chierici ricevette l’invito a farsi da parte, per raggiunti limiti di età. Che fosse cambiato il vento, lo dimostrò la scelta del successore. Non un uomo di sport, ma un direttore manager, capace di piegare il giornale alle nuove esigenze. Dino Biondi era stato un eccellente giornalista del Carlino, aveva scritto un libro di meritato successo, «La fabbrica del duce», rigorosa inchiesta sulla macchina propagandistica alla base dell’ascesa di Mussolini, era momentaneamente parcheggiato alla direzione editoriale. Personalmente gli debbo moltissimo. Con lui fui nominato subito inviato speciale, poi redattore capo, in coppia con l’amico Paolo Facchinetti, compagno di una vita recentemente scomparso, infine vicedirettore. Quasi un’investitura, quest’ultima, perché non era un mistero che Biondi si considerava di passaggio e che aveva accettato il compito di traghettatore per puro amore di bandiera. Anni travagliati, quelli. Alle soddisfazioni personali si andavano a sovrapporre le preoccupazioni per un futuro incerto. Ai piani alti non c’era più Pelloni, che aveva salvato Stadio da tante tempeste nel passato. E i nuovi manager erano molto lontani dal mio modo di pensare, i tagliatori di teste per professione non mi sono mai andati a genio. Con tutto ciò, quando nel 1976 fui nominato direttore mi concessi una licenza di superbia. In tredici anni, da quell’offerta di Chierici allo stadio di Firenze, avevo fatto una bella corsa. Per prima cosa volli Facchinetti come capo redattore e poi mi buttai a capofitto in un’impresa disperata. I gufi erano ormai allo scoperto, della prossima chiusura di Stadio si parlava e si scriveva apertamente, Stadio e il Tirreno erano i rami secchi da tagliare. Non fu un anno facile, ma poi si aprì uno spiraglio. Non tutti gli editori, per fortuna, sono uguali. Franco Amodei, che aveva portato il Corriere dello Sport a successi insperati, cercava uno sbocco verso il Nord o forse ebbe semplicemente pietà di un giornale che volevano affogare e si ostinava invece a buttare la testa fuori dall’acqua. L’ipotesi, assolutamente inedita, di una fusione che però mantenesse a ciascuna delle due testate pari dignità anche grafica, era tanto ardita quanto geniale (ma questo lo si capì solo dopo). Stadio si salvò così da una fine ingiusta. Credo che l’operazione sia andata in porto anche perché dalle due parti c’erano due direttori amici come fratelli. Giorgio Tosatti era stato il compagno delle mie notti torinesi, ai tempi di Tuttosport, e da allora non avevamo mai perso i contatti. Ci trovammo a definire un protocollo d’accordo partendo dal presupposto che nessuno avrebbe provato a fregare l’altro. Mica poco. Da ultimo direttore di Stadio mi ritrovai così a primo vicedirettore di Corriere dello Sport-Stadio. Un passo indietro? Forse, ma senza drammi. Diceva il mio vecchio amico Ormezzano che è importante anche saper usare la retromarcia, quando occorre. Intanto Stadio non era morto, alla faccia dei corvi e dei cialtroni, come avrebbe detto Bardelli. E può oggi festeggiare i settant’anni pensando di averne ancora tanti dinanzi.


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