E Montezemolo si mise a ballare
Alle 9 del mattino quelli che volevano vedere Lauda e la Ferrari campioni del mondo guadavano a piedi nudi, come pellegrini, le grandi pozzanghere-lago che si erano formate nei sottopassaggi dell’autodromo di Monza e su tutti i passaggi pedonali. Sembrava un’enorme, generale cerimonia sacrificale, come quando gli indiani vanno a bagnarsi i piedi nelle acque del sacro Gange. A quell’ora mattutina, i bolidi marchiati Ferrari 312 T, gli dei a cui era dedicato il sacrificio, stavano riparati e protetti sotto un tendone bianco insignito dell’immagine regale di un cavallino rampante. Uomini anch’essi vestiti di bianco, “bonzi” chiamati tecnici, non ascetici per il nirvana, ma pingui e rubizzi per tortellini e lambrusco di Modena, dedicavano già a quell’ora cure e adorazione a questi animali sacri, detti bolidi, veri miti del nostro tempo. Masticando improperi a Giove Pluvio, ridendo grevi ma simpatici, queste frotte di pellegrini guadavano l’acqua con le scarpe in mano, magari un figlio o l’amico impedito sulle spalle, ed il braccio teso verso le loro donne, non agili per italiche rotondità, ma cocciute a volersi arrangiare da sole, forse per un inconscio orgoglio femministico. Qualche coppia si spiaccicava nel fango, ma riemergeva felice, pur in mezzo ai moccoli e agli improperi. Era il giorno di Niki Lauda, forse il primo “crucco” dopo centenni di prevenzione, che gli italiani, almeno quelli che si occupano di sport o di motori, sentivano veramente amico, fratello proprio; e questo nonostante certe provinciali campagne avverse. Ma era anche il giorno della Ferrari, dopo tanto tempo, un giorno atteso da undici anni, una rivincita, una riscossa. Valeva la pena, dunque, sacrificarsi, bagnarsi, “purificarsi”, anzi, per essere sinceri, insozzarsi nelle acque dell’autodromo di Monza...
In questa voglia di essere presenti sin dal primo mattino ad una vicenda quasi sicuramente felice, c’era probabilmente anche l’enorme bisogno di vivere dal vero, di sentirsi partecipi di un avvenimento talmente positivo, esaltante, comunitario, che è vivo in tanta parte della gente, desiderosa ormai di ritrovarsi, di sentirsi parte di una comunità non sempre perdente, di sentirsi partecipe di un rito comune non imposto e non malinconico. È vero, dietro ai riti, l’imposizione consumistica esisteva, così come accadeva fino a ieri nei grandi raduni di musica pop, l’unico esempio che ci viene in mente per descrivere l’autodromo di Monza oggi; con la gente che aspettava paziente e si faceva inzuppare sino alle ossa dalla pioggia spietata, però fiduciosa che anche chi comanda ai venti, alla pioggia e al sole, alla fine non avrebbe potuto negare a chi si era alzato all’alba per venire a Monza, la gioia della vittoria di Lauda e della Ferrari.
È questa fiducia, e questa speranza, valevano bene anche l’ossequio all’obbligo del consumismo. Eppoi chi ha detto che tutti erano venuti unicamente ossequiosi di questo dio che governa la nostra società occidentale? Non facciamo i sofisti: c’erano 150mila persone oggi a Monza, molte, anche se meno del previsto per colpa del diluvio, e molta di questa gente non ha nemmeno visto la corsa, l’ha solo “sentita” nel rombo dei motori, nella voce dello speaker, nelle chiacchiere che passavano di bocca in bocca. Questa gente dunque, secondo noi, aveva solo voglia di un pic-nic “diverso”, che i dati meteorologici non riuscivano ad appannare, perché la fine del pic-nic sarebbe sicuramente stato un momento di entusiasmo per tutti.
«Dottò e chi è abituato a vincere a casa nostra?» mi ha urlato uno sconosciuto che dopo la corsa cercava Lauda per toccarlo.
Prima noi avevamo vissuto anche i momenti angosciosi di questa giornata, quando la pioggia sembrava voler rinviare ancora una volta la grande speranza di gioia di quelli della Ferrari. Ma era sorprendente accorgersi come solo per noi, addetti ai lavori, la speranza era stato un sentimento fragile.
Poi quando il sole era venuto fuori ad asciugare le ossa bagnate di chi non aveva mai dubitato, avevamo scoperto la tensione dei box, il colore, i riti, le esasperazioni del momento prima della gara. Le donne belle e impassibili dei piloti con taccuino, cronometro, biro, tradite nel loro nervosismo solo dai morsi al labbro inferiore, o dalle unghie delle mani rosicchiate fino quasi a farle insanguinare. Eppoi le cassette degli strumenti dei meccanici, ordinate, lucide, misteriose, come scrigni di perle, e il moloch-pubblicità che tenta di imporsi col clamore di tante belle ragazze fasciate con nomi di prodotti, qualcuna anche famosa come Sabina Ciuffini ma «disposta a fare la donna-sandwich, solo per colpa del tifo, della passione per Lauda, non per il richiamo del denaro...» eppoi anche i riti: la preghiera di Reutemann prima di spingere l’acceleratore a 300 all’ora per spendere l’ultimo filo di gas e di illusione, e il samba con bandiera brasiliana dei tifosi di Fittipaldi, e il distacco aristocratico, non convinto di lord Hesketh, il “sensibile” boss di Hunt, che quest’anno ha perso venti chili nell’angoscia “struggente” dei circuiti, e di mister Stanley, quello che, dicono, ha “distrutto” la BRM, un personaggio che come “lord sensibile”, sembra fuori tempo in un mondo che ormai non è più da gentlemen di campagna, da nobili, precisi e tuttavia non retorici, non distaccati.
Luca Montezemolo, giovane entusiasta manager della Ferrari, quando Regazzoni ha tagliato il traguardo e dopo di lui Fittipaldi e subito dopo Lauda, ha buttato in aria tutti i cartelli segnaletici del team Ferrari, eppoi si è messo a ballare, come uno qualunque del pubblico, e si è messo ad abbracciare tutti e alla fine si è piegato in due, perché gli veniva da piangere, anzi piangeva per davvero. Poi ha abbracciato la donna di Lauda, Mariella, e sembrava proprio un qualunque tifoso, un personaggio da stadio, non un manager educato a una scuola inglese. Era la prova di una passione sincera, di un sentimento, e di una atmosfera genuini, della voglia di partecipare ad un avvenimento positivo, che ormai è in tutti noi, poveri e ricchi, personaggi sconosciuti e alla ribalta, gente di successo, e gente che il successo lo vive solo per interposta persona, nella vittoria di un campione sportivo, nella vicenda positiva di un personaggio più fortunato.
