L’imperatore delle due ruote
Incurante degli 83 anni indicati sulla sua carta d’identità, Giacomo Agostini continua a scorrazzare in moto e scooter per la Bergamasca per gestire personalmente i suoi affari. La sua guida è pulita, mai aggressiva, sempre rispettosa del Codice della Strada. Eppure, qualche settimana fa un automobilista l’ha etichettato in malo modo. «Ero fermo con lo scooter al semaforo rosso, con cinque-sei auto davanti, in una strada a due corsie. Aspettavo che partissero per muovermi, quando l’ho fatto questo prepotente mi ha tagliato la strada e mi ha gridato “Impara ad andare in moto”».
A un quindici volte campione del mondo…«Non mi ha riconosciuto. Mi sarebbe piaciuto togliere il casco per mostrargli il mio volto, ma non ho avuto la prontezza di spirito e mi sono limitato a dargli del cretino».
Nel frattempo è uscito un altro libro su di lei. «Già, si chiama “Ago una vita da campione”. Il titolo l’ho scelto io, mi avevano suggerito alcu- ne alternative e questa mi sembrava la più adatta».
Sono trascorsi 60 anni dal suo primo successo nel Mondiale, al GP Germania della 350: cosa ricorda? «Corremmo al Nürburgring ma sulla Südschleife, fu una giornata fantastica. Quando nei giorni precedenti arrivai all’albergo trovai quelli della Honda: mi videro, parlottavano e ridevano, io ero appena diventato campione italiano della 250 e mi offesi, mi risentii. Così quando ci rincontrammo dopo la vittoria, camminavo in punta di piedi, mi sentivo un gigante, il sorriso mi arrivava alle orecchie».
Nello stesso anno, in Finlandia, conquistò il suo primo successo nella classe regina. «Stavo imparando tutto da Mike Hailwood che era un fenomeno, aveva due anni in più e una notevole esperienza. Era uno stimolo continuo: vedevo come affrontava le curve, ma in generale in ciascuna gara c’era sempre qualcosa da imparare. Non che facessimo le stesse traiettorie, quelle me le ha date Madre Natura»
I suoi numeri sono incredibili, a partire dai 20 GP di fila vinti nella classe regina, la 500, tra il 1968 e il 1969: una serie interrotta in modo anomalo. «Il GP Nazioni del 1969 si corse a Imola invece che a Monza, una scelta che non piacque al conte Domenico Agusta, che non schierò alcuna moto. D’altro canto io fui fedele alla MV Agusta: quando firmai per la Casa varesina, la Gilera mi offriva il doppio, ma io pensavo soltanto a vincere».
A fine 1973 però passò alla Yamaha, con cui debuttò nel marzo successivo alla 200 Miglia di Daytona. «Fu una grande esperienza perché condensava una serie di prime volte: negli Stati Uniti, in sella a una moto a due tempi, su una pista sopraelevata e contro i piloti americani. Per di più la qualifica era sul giro secco, mentre io ero abituato a compiere due-tre tornate e poi a fare il tempo».
Fu quella la sua vittoria più bella? «Non ho una vittoria preferita, ne conservo tante nel cuore. Non posso dimenticare la mia prima gara in Salita con la Morini privata e l’amico panettiere che fungeva da meccanico. Così come non posso scordare il primo Mondiale vinto a Monza, davanti al mio pubblico. Anche se non mi rendevo conto di essere campione del mondo: lo capii soltanto il lunedì mattina leggendo i giornali».
E come dimenticare le 10 vittorie al TT? «La mia gara più bella all’Isola di Man fu quella del 1967 nella 500, quando fui costretto al ritiro dalla rottura della catena dopo la battaglia con Hailwood. Una sfida che stavo vincendo».
Lei è stato anche il primo pilota-personaggio: come ci riuscì? «Non fu voluto, nacque per una serie di circostanze. Ma dissi anche una serie di “no” perché ero concentrato soltanto sulle moto. Rifiutai un film con Piero Gelmi e pensai tre giorni e tre notti all’offerta di Enzo Ferrari di correre in auto. Come potevo rinunciare a un dono che Dio mi ha dato?».
Ha mai considerato l’ipotesi di entrare in politica? «Silvio Berlusconi me lo chiese, ma gli risposi che non era il mio mestiere. È un ruolo difficile e in più vedo quanto si odiano, non fa per me».
I suoi ultimi anni coincisero con l’arrivo degli americani: perché andarono subito forte? «Noi in Europa avevamo gomme a “pera”, con cui ci si piegava facilmente. Loro, anche per la presenza delle curve sopraelevate, avevano le Goodyear, molto più larghe. Con quelle dovevi per forza andare giù con il corpo».
L’Italia rispose negli anni Novanta con Max Biaggi e nei Duemila con Valentino Rossi. «Max è stato forte, anche se non ha fatto la carriera di Valentino, per il quale parlano i risultati, i nove Mondiali vinti».
A quota nove è arrivato anche Marc Marquez. «Mi spiace proprio per il suo infortunio alla spalla. Ha dimostrato quello che è, quest’anno ha guidato con bravura e intelligenza, se l’è meritato, dobbiamo fargli i complimenti».
Teme che l’infortunio inciderà sul suo 2026? «No, perché ha dimostrato di saper guidare e poi le moto le fanno gli ingegneri, non i piloti».
E dell’involuzione di Pecco Bagnaia cosa pensa? «Lo vedo giù di morale, spero che si riprenda e ritrovi la grinta di prima. Penso possa tornare for- te come in passato, spero e credo, anche perché ci regalerebbe un 2026 combattuto».
