Quanti rivali per l’Italia
Arrivarono da Oltremanica e Oltreoceano, portando background validi per vincere gare e Mondiali. E soprattutto un nuovo modo di guidare. Quando nemmeno si immaginava di coniare la parola “Brexit”, gli inglesi Leslie Graham, Geoff Duke, John Surtees, Mike Hailwood e Phil Read scrissero i primi successi di quel Regno Unito esploso in moda e stile di vita lussurioso con Barry Sheene, londinese che negli Anni ’70 era l’incubo degli avversari e il sogno delle tifose.
I britannici
Sprezzanti del pericolo, anzi attirati dal rischio, i britannici fecero parlare gli appassionati delle due ruote quasi e anche più dei colleghi della Formula 1, ambito nel quale Surtees fece suo il titolo mondiale a bordo della Ferrari, completando (unico a regnare nei due paddock) una serie di successi motociclistici già ottenuti in 350 e 500. Ci provò anche Hailwood, traendo minori soddisfazioni. Gary Hocking, nato in Galles ma naturalizzato rhodesiano, risulta all’albo d’oro quale più esotico dell’intera lista.
Gli americani
L’ondata di nomi provenienti dalla Terra di Albione si “calmò” a fine anni Settanta, quando esplose il movimento a stelle e strisce, promosso dalla cultura dei propulsori di grossa cilindrata, dall’allenamento su terra battuta nei circuiti ovali e dalle prime sponsorizzazioni americane del tabacco. Stile di guida pulito e tipicamente latino di Umberto Masetti, Libero Liberati e Giacomo Agostini? Bello, ma ai Made in Usa piaceva viaggiare di traverso, nella gestione sempre crescente di cavalli. Dapprima Pat Hennen in singolo GP, poi il marziano Kenny Roberts, che rivoluzionò il Mondiale: le pieghe con il ginocchio a terra (oggi anche con il gomito) le portò il californiano, tre titoli nei primi tre anni nel Mondiale 500, dove diventò anche sindacalista per portare all’intero movimento un professionismo che fino ad allora era riservato soltanto a pochi eletti. Lo seguirono “Fast” Freddie Spencer ed Eddie Lawson, fino al dualismo tra il coraggioso e redditizio Wayne Rainey e lo spettacolare Kevin Schwantz, che con la sua guida esprimeva il modo di essere del suo Stato di nascita, il Texas. Una scuola capace di dominare per un ventennio, i cui eredi sono stati Kenny Roberts junior e il compianto Nicky Hayden, ultimo yankee iridato nonché il primo a rifilare una vera sconfitta a Valentino Rossi.
Gli australiani
Quasi contestualmente agli americani, gli australiani partirono da lontanissimo, prendendosi tantissimo. Wayne Gardner, Mick Doohan e Casey Stoner erano filosoficamente simili a californiani e texani, sia per la tecnica in sella che per l’esigenza di costituire una piccola comunità connazionale distante da casa. Del resto, come gli australiani - coraggiosi, talentuosi, senza peli sulla lingua - c’erano soltanto i piloti nati nella terra dei canguri.
Spagnoli
Gli ultimi marziani capaci di fare breccia nei cuori dei tifosi, anche italiani, vengono da vicino e si esprimono con facilità nella lingua di Dante. Quando nel 1992 Alex Criville vinse ad Assen, non ricevette attenzioni: fu il GP dell’infortunio alla gamba che rischiò di fermare per sempre Doohan, capace in seguito di vincere cinque titoli consecutivi. Al contrario Criville anticipò un trend inatteso. Così piccoli e minuti, gli spagnoli dovevano essere i re delle piccole cilindrate, invece ecco i frutti della lunga semina a cavallo del nuovo millennio, con strutture e classi propedeutiche in terra iberica (favorite dal meteo sempre amico) a sfornare campioni. E fenomeni. Prima Sete Gibernau, poi gli acerrimi rivali Dani Pedrosa e Jorge Lorenzo, il primo spagnolo campione della classe regina nel 2010. Infine la risposta a Valentino Rossi, con quel Marc Marquez capace di ricalcare il percorso del Dottore, prima suo idolo e poi suo nemico: nove titoli a testa, che Marc ha vinto con una guida irripetibile, fatta di talento e coraggio. Virtù a ricordare britannici, americani e australiani, i predecessori nel ruolo di antagonisti degli italiani.
