Coppi e Pantani, che doppiette!

Nella storia del ciclismo c’è anche un record ancora difficilmente battibile per un italiano
Coppi e Pantani, che doppiette!
Cristiano Gatti
8 min

Avvenimento epocale, da ribaltarci le prime pagine, l’accoppiata Giro-Tour nello stesso anno. Non si può dire nemmeno ad ogni morte di Papa, perché è molto più raro. Talmente raro, da rendere impossibile dimenticare chi, come, quando. Fuori in punizione chi sbaglia questa: Coppi e Pantani, 1949 e 1998. Poi dice che una volta ogni cinquant’anni è solo un modo di dire. Per un’impresa così titanica, che noi umani immaginiamo alla portata solo dei Rambi, l’Italia si è servita di due Rambi impresentabili. Da riformati alla visita di leva. Coppi e Pantani hanno questo di vagamente inverosimile: sono accomunati da un fisico per niente forzuto, danno entrambi la sensazione di avere un gran bisogno della ginnastica correttiva e del ricostituente di Nonna Papera. Di più: per un’insondabile decisione del destino, hanno un sacco di altri lati comuni. Certo la leggerezza piumosa in salita, ma prima ancora un carattere introverso e arrotolato come matassa, un bisogno disperato di amore e di compassione, un’ombra perenne da anime inquiete. Fino alla tremenda chiusura: a nessuno dei due il Cielo ha concesso di morire davanti al caminetto, circondato dai nipoti, in una vecchiaia di ricordi e malinconie. Una maledetta e malavitosa, una disgraziata e crudele: comunque morte brutta, giovane, cattiva. E chissà che in fondo anche questo non concorra a renderli quali li ricordiamo, meravigliosi e fragili come vetro soffiato.

Coppi, il campionissimo

Prima Coppi, in quel formidabile anno 1949. Fausto lo apre con lo stuzzichino della Sanremo, quindi si siede a tavola e azzanna le portate. Tra maggio e giugno il Giro. Questa la sanno anche i bambini. Coppi conquista la maglia rosa nella 17a tappa, la Cuneo-Pinerolo poi diventata un brand, 190 chilometri di fuga, Colle della Maddalena, Col de Vars, Col de l’Izoard, Monginevro, Sestriere, alla fine 11’52” su Bartali e quasi 20’ su Alfredo Martini. Una fortuna in più, alle volte le combinazioni: a raccontare l’impresa c’è un inviato specialissimo del “Corriere della Sera”, Dino Buzzati, il Coppi del giornalismo italiano. Tutto diventa ancora più artistico. Come avere un grande autore e un grande cantante per fare grande la canzone. E poi, e poi. Venti giorni dopo parte il Tour, all’epoca per nazionali. Poche tappe, e già alla quinta, Rouen- Saint Malo, scoppiano i petardi. Caldo atroce. Nell’attraversare un villaggio, la maglia gialla Marinelli urta Coppi nel tentativo di afferrare la bottiglietta d’acqua offerta da uno spettatore. Impatto, caduta, catasta di uomini e cose. Ma mentre Marinelli si rialza e riparte, Coppi si ritrova con la bici distrutta. Immediatamente arriva il diesse della Bianchi, Trigella, con una bici qualsiasi, ma Fausto la rifiuta: vuole la sua di ricambio, che però sta sull’ammiraglia del ct Binda, rimasto più indietro. Momenti di caos e di rabbia. Coppi sclera, vuole cocciutamente la bici sua, non c’è verso di farlo ripartire. Se Dio vuole, a un certo punto arriva Binda con la bici giusta e arriva anche Bartali, che si ferma ad aspettare il compagno. Ormai però la corsa è compromessa, Coppi va in crisi, più di nervi che di gambe, e alla fine arriverà con 18’ di ritardo, per un totale in classifica generale di 35’ da Marinelli. Clima plumbeo, volti stravolti, parole grosse. Coppi vuole tornare a casa. Binda e l’intera squadra azzurra fanno di tutto per convincerlo a proseguire. Pressione particolarmente convincente, perché difatti Coppi resta e il giorno dopo riparte. È un secondo inizio, ad handicap, che però lo schiafferà di prepotenza nella storia. La rimonta comincia subitissimo. Coppi vince la cronometro. Nelle tappe successive, attacco continuo. Un forsennato rimontare posizioni di classifica. Fino ai piedi delle Alpi. Fino alla tappa dell’Izoard. È proprio risalendo quei tornanti, affacciati sui panorami più belli di una natura d’acquerello, che lo sport italiano si gode uno show a cielo aperto: Coppi si scatena insieme a Bartali, i due fanno il vuoto e niente sembra poterli fermare. Fino a quando Bartali disgraziatamente prima fora e poi cade. Coppi all’inizio vorrebbe aspettarlo, ma Binda e lo stesso Bartali lo prendono in mezzo, non se ne parla neanche, tu sei Coppi e adesso vai via da solo, raccontando al mondo chi è Coppi e cosa significhi essere italiani in bicicletta. All’arrivo di St.Vincent primo Coppi, poi Bartali a 5’, poi Robic a 10’. Coppi e l’Italia intera in maglia gialla. La strada da lì a Parigi servirà solo ad aumentare sempre di più il vantaggio, alla faccia della maledetta caduta, della rabbia per la bici, del muso nero deciso a ritirarsi: tutte maledizioni che alla fine, capovolte, diventano gli ornamenti e i dettagli migliori per una vera epopea.

Pantani, il pirata

Mezzo secolo dopo, Pantani. È il 1998, l’anno prima della fine di tutto, a Madonna di Campiglio. Maggio ‘98, il Giro d’Italia della felicità nazionale. Per uno come Pantani, niente di stratosferico: si tratta in definitiva di giustiziare il russo Tonkov in un cruento duello sulla salita di Montecampione, quart’ultima tappa. Quindi, l’impresa vera: è quella postuma del mitologico Luciano Pezzi, un secondo padre di Pantani, che muore a fine giugno, pochi giorni dopo le feste del Giro. Questa lacerazione segna il campione, che improvvisamente decide di riempire il vuoto nell’unico modo possibile, l’unico che conosca: andare al Tour, vincerlo e regalarglielo, recapitandoglielo ovunque egli sia. Ed è così che nasce la leggenda reale e regale del Galibier. Si arriva lì in una giornata cupa e tetra, per il maltempo e per il tempo cattivo delle prime retate doping, Festina e gente ingabbiata, come dimenticare, come fingere che all’epoca il doping è parte obbligata del corredino. Però ai duemila metri del Galibier, freddo invernale anche se è il 27 luglio, sotto una pioggia ghiacciata, bisogna comunque pedalare con le proprie gambe e il proprio se stesso. Manca ancora tanta strada, Pantani ha un’alternativa: puntare alla tappa e dunque aspettare il finale a Les Deux Alpes, oppure giocare pesante, l’intero piatto, o tutto o niente, rischiando la figuraccia biblica, però rischiando anche di ribaltare la maglia rosa del possente panzer Ullrich, giocando d’agilità, di carattere, d’astuzia. Chi non lo sa: sceglie la due, attacca prima ancora di scollinare sul Galibier, poi ha la lucidità di fermarsi per vestire una mantellina decisiva, cosa che il panzer, dietro, in panico totale, non fa. Il risultato finisce dritto sui libri di storia, Pantani tappa e maglia, Ullrich maciullato e irriconoscibile sul traguardo a 8’57’’. È la pagina più abbagliante di una doppietta Giro-Tour fino a quel punto considerata impossibile dai tecnocrati del ramo. Impensabile al giorno d’oggi: questo il dogma. Ma apposta arrivano i Coppi e i Pantani, una volta ogni cinquant’anni: a ridicolizzare l’impossibile. Restituendoci ogni tanto la consolante certezza che per i figli diletti degli dei l’impossibile è niente.


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