Undertaker esclusivo: "Ecco cosa farò adesso. Ho due soli rimpianti"

Il Deadman si racconta in una lunga intervista: "Se non fossi stato questo personaggio, mi sarebbe piaciuto vivere la vita di Ric Flair"
Undertaker esclusivo: "Ecco cosa farò adesso. Ho due soli rimpianti"
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ROMA - Non serve essere un appassionato di wrestling per conoscerlo. Almeno una volta nella vita chiunque avrà sentito nominare almeno una volta “The Undertaker”. Già, perché il “becchino” della WWE non è soltanto un "semplice wrestler", la sua è sempre stata una figura leggendaria, che nel corso di 34 anni di carriera (di cui 30 nella compagnia di Vince McMahon) Mark Calaway (questo il suo vero nome) ha sempre custodito con grande cura: «Le due vite, tra persona e personaggio, si sono intersecate sin da subito. Quando andai a Stamford per parlare la prima volta con Vince McMahon, lui mi mostrò i vari piani per me e mi sono indirizzato immediatamente verso quella figura. All’epoca avevo una parte “dark” dentro di me, mi stuzzicava quel tipo di “character”. Così ho iniziato a studiare cosa potesse servirmi per farlo diventare veramente mio e ho analizzato talmente tanti aspetti che alla fine io e Undertaker siamo diventati un’unica entità. Questo mi ha permesso di creare qualcosa di successo, ma d’altra parte mi ha fatto diventare una specie di “recluso” nella mia intimità. Non che abbia mai avuto una grande esigenza di avere vita sociale, stando in giro per 250-260 giorni l’anno, quando tornavo a casa volevo ovviamente restare lì. Ma anche se avessi voluto fare qualcosa o uscire non avrei potuto, perché non volevo che la gente mi vedesse fuori dai panni di Undertaker. La mia attenzione è sempre stata sul fatto che il personaggio non venisse mai delegittimato».

Da un Survivor Series a un altro, 30 anni di Undertaker

Trenta lunghi anni rinchiuso dentro una “gimmick” mostrata per la prima volta nel 1990 in occasione del PPV Survivor Series. Ecco perché tre decadi dopo, nell’anno del suo ritiro annunciato mesi fa nella docu-serie su di lui “The Last Ride” e poi ribadito a “30 Days of the Deadman”, attualmente in corso sul WWE Network, The Undertaker saluterà ufficialmente il mondo del wrestling agonistico nello stesso evento, cioè l’edizione 2020 di Survivor Series, che sancirà il suo commiato. Ciò non significa però che Mark Calaway abbandonerà definitivamente questo sport-entertainment: «Non so di preciso cosa farò, non ho ancora immaginato questa parte della mia vita. Attualmente mi sto ancora guardando indietro, ripenso a questi fantastici 30 anni in WWE. Non credo però che a partire da domenica la mia strada si separi da questa compagnia. Avrò sempre il mio posto qui e una delle cose che realmente mi interessa è sdebitarmi, lavorare con i talenti che stanno crescendo, provare a dare loro qualcosa di me, della mia esperienza. Anche se il prodotto e i tempi sono cambiati, credo che ci siano molte cose e molti aspetti, soprattutto di storytelling, sui quali si possa lavorare oggi. Per questo credo di poter essere una risorsa per le nuove generazioni. Oltre a questo, ho tenuto me stesso dentro questa figura per così tanto tempo, che ora mi sto creando tante opportunità per uscirne: conoscere i fan, avere interazioni più personali come autografi e cose del genere. Mi è sempre piaciuto molto sentire storie di alcuni fan e di come il personaggio di Undertaker abbia influito nelle loro vite. Finalmente avrò modo di approfondirle in modo diretto, senza il distacco che dovevo avere».

Eddie Guerrero e AJ Styles i soli rimpianti

Sì, i fan. È questo l’aspetto che probabilmente mancherà di più in assoluto rispetto alla “vita precedente”: «La cosa che mi mancherà di più sarà sentir partire la musica, con le luci che si spengono e la reazione incredibile dei miei fan. Questo è in fondo quello che mi ha sostenuto per tutto questo tempo. Mi hanno dato energia, motivazione, forza. Ci sono state occasioni in cui sono stato in giro anche per 30-40 giorni di fila nei vari tour e queste sono cose che non puoi riuscire a fare senza l’affetto dei tifosi, il loro apprezzamento per quello che facciamo e nello specifico per il mio personaggio, che è stato amato per così tanto tempo». Dal punto di vista del ring, invece, i rimpianti sono davvero pochi: «Ho combattuto in tutto il mondo, contro tutti i migliori atleti della mia generazione. Forse mi sarebbe piaciuto che uno dei miei regni da campione fosse stato un po’ più lungo, ma quando guardo indietro nella mia carriera penso di aver fatto davvero tanto. Non c’è realmente un qualcosa che mi fa pensare “ok, quello mi manca”. Dopo 30 anni sono orgoglioso di quello che ho fatto. Ecco, magari mi sarebbe piaciuto avere modo di lavorare di più con Eddie Guerrero o con AJ Styles. In riferimento a quest’ultimo sono super orgoglioso del Boneyard Match che abbiamo creato. Mi sarebbe piaciuto avere anche un incontro tradizionale con lui, glielo ho detto in molte occasioni: “Avrei voluto incontrarti 10 o 15 anni fa”. Amo il modo in cui lavora, lui è lo Shawn Michaels del mondo moderno».

La streak a WrestleMania interrotta da Brock Lesnar

Nella sua carriera in WWE, The Undertaker ha collezionato 7 volte il titolo di campione del mondo (3 World Heavyweight Championship e 4 WWF/WWE Championship), in altrettante occasioni ha detenuto i titoli di coppia (3 con il “fratello” Kane, 2 con Big Show e una rispettivamente con The Rock e Stone Cold Steve Austin), una Royal Rumble (2007) e molto altro ancora. Ma quello che più si ricorderanno gli appassionati probabilmente è l’incredibile streak vincente di 21 vittorie consecutive a WrestleMania, cioè l’evento più importante dell’anno per il mondo del wrestling. Una striscia interrotta il 6 aprile 2014 contro Brock Lesnar: «Egoisticamente è chiaro che tu non vuoi che succeda, ma da un’altra parte mi ha fatto prendere consapevolezza che a quel punto della carriera, lavorando praticamente solo una o due volte l’anno, diventava faticoso prepararsi per WrestleMania. Sinceramente non credo che Brock avesse bisogno di quella vittoria, ovviamente non ho avuto problemi nel farlo. Semplicemente dico che non fosse il tipo di ragazzo che ne avesse bisogno. Credo che Roman Reigns o Bray Wyatt ad esempio sarebbero potuti crescere più velocemente a uno status più alto. Roman probabilmente avrebbe potuto sfruttare la vittoria più di chiunque altro. Bray con lo sviluppo del The Fiend adesso si sta letteralmente catapultando nel livello superiore. Sì, nel roster attuale probabilmente Roman avrebbe tratto più benefici dall’interrompere la mia streak».

L'importanza del Ladder Match contro Jeff Hardy

Il discorso di Mark Calaway sull’importanza di un match contro Undertaker prosegue, prendendo ad esempio il Ladder Match del 1° luglio 2002 contro Jeff Hardy: «Purtroppo molte persone non capiscono che essere in questo business a volte significhi che qualcuno può perdere, ma essere elevato allo stesso modo anche attraverso la sola performance contro uno come l’Undertaker. Ricordo che in occasione di quel match con Jeff Hardy, io non avevo idea che fosse un Ladder Match fino al giorno stesso dell’incontro, fino al momento in cui sono entrato nell’arena. Inizialmente non ero molto contento di questo. Insomma, non era quello in cui mi trovavo più a mio agio, non era il mio forte. Ma era ciò che avrebbe permesso di puntare i riflettori su Jeff e sulle cose che poi ha fatto. E in più mi ha aiutato a uscire dalla mia comfort zone, mi ha portato a provare qualcosa di diverso, perché volevo ovviamente che fosse un super match e siamo stati fortunati perché ha riscontrato veramente un grande successo. Queste sono situazioni che ti portano a sfruttare la tua creatività. Ha spinto me e di conseguenza mi ha permesso di spingere Jeff a brillare in questo tipo di incontro. Sono molto orgoglioso di quel match, probabilmente uno dei migliori della mia carriera. Non mi sembra nemmeno di averne fatti altri dopo di quel tipo. D’altronde avevamo già fatto la cosa giusta al primo tentativo, non c’era bisogno di farne altri».

Insegnare lo storytelling alle nuove generazioni

E se la maggior parte dei suoi incontri si sono rivelati un successo, gran parte del merito risiede soprattutto nella sua capacità innata di far coinvolgere emotivamente il pubblico, raccontando storie: «Sì, lo storytelling è quello che facciamo ed è ciò che cerco di fare capire ai giovani. Se guardi il nostro prodotto oggi, ti accorgi che sia pieno di talenti, fisicamente incredibili come credo non sia mai successo prima. Ma quello che facciamo è raccontare storie, la parte più importante a mio giudizio. Non si tratta solo delle mosse di wrestling da usare, quelle servono ad aiutarti a raccontare qualcosa. È questo che cattura e affascina le persone, spingendole a restare interessate in ciò che facciamo. Da questo punto di vista credo che ultimamente il feud che più lo abbia dimostrato sia quello tra Jey Uso e Roman Reigns. Per me è stata una grande dimostrazione di storytelling e le persone sono rimaste coinvolte, potendo capire perfettamente come l’eredità e la tradizione samoana siano importanti per loro. Per me tutto inizia e tutto finisce con le storie».

Da sempre leader della Locker Room

Potrà insegnarlo a partire da lunedì, quando il suo passato da wrestler sarà definitivamente messo nel cassetto. Ma non quello di leader, un ruolo che ha sempre ricoperto nella locker room: «Con me il business è sempre venuto prima di qualsiasi altra cosa. Si può uscire, avere grandi serate, ma questa non è una scusa per non dare il 100%, a prescindere da come uno si senta. Credo che le persone abbiano visto in me uno che andava là fuori e si esibiva anche da infortunato e probabilmente, non nei giorni in cui ero alle prime armi, mi sarei potuto permettere di non andare sul ring per lavorare. Invece mi vedevano andare lì e fare ciò che potevo, perché la gente aveva pagato per vedermi. Così potevano capire che quello era ciò che dovevamo fare. Non per divertimento, ma perché era una cosa seria. Io credo di essere solo stato in grado di essere qualcuno con cui poter parlare a prescindere da dove tu fossi posizionato nella card. Se c'era un problema o qualcosa, io ero lì. Credo che i talenti abbiano apprezzato questo, il fatto che se ci fosse un qualsiasi tipo di inconveniente potessero parlarne con me. Da questo deriva la fiducia. Per me è stato un onore il fatto che loro mi abbiano considerato così senza bisogno di pressioni. È semplicemente successo».

Entrato da ragazzo, ne esce da leggenda

The Undertaker nel corso di questi lunghi trent’anni in WWE è ovviamente cresciuto anche a livello umano. D'altronde in questa compagnia ci è entrato da adolescente, ora ne esce (solo dal punto di vista agonistico) come uomo: «Probabilmente la più grande lezione di vita che ho ricevuto nel corso di questi anni è il fatto di non dare mai nulla per scontato e vivere il momento. Ovviamente nel nostro mondo, ogni notte, ogni match, siamo solo una briciola, siamo a due passi da qualcosa di catastrofico che ti potrebbe accadere. So che la maggior parte delle persone non ci pensa, anche da atleta non ci vuoi nemmeno pensare, ma per quanto tutto sia fantastico e tu sia al top del mondo, potrebbe presto arrivare la fine e così apprezzi di più ciò che hai, la capacità di vivere il momento. La mia filosofia è “tratta gli altri come vuoi che gli altri trattino te”. Trattare tutti con rispetto, a prescindere dal fatto che siano nella parte alta o bassa della card, perché siamo tutti all’interno di questo business e bisogna fare in modo che il prodotto sia il migliore possibile per i nostri fan, su tutti i livelli».

Chi sarebbe voluto essere se non fosse stato Undertaker?

Per concludere chiediamo a Calaway una delle poche curiosità rimaste senza risposta dopo i tanti documentari realizzati sulla sua carriera. Se non fosse stato il Deadman, quale altra superstar della WWE gli sarebbe piaciuto essere? «Sarebbe piuttosto complicato non voler essere Ric Flair (ride, ndr), voglio dire, lui è l’incarnazione del successo, dell’essere campione del mondo e tutte quelle cose che ne conseguono. Ho sempre pensato che il personaggio di Ric Flair fosse sopra le righe, ma non era realmente così perché quello è realmente Ric Flair. Lui era l’asticella da raggiungere e con la quale misurarsi per tutti gli atleti della mia generazione. Per quanto riguarda il successo impressionante che ha avuto e che continua ad avere, così come per la carriera che ha avuto, io credo che mi sarebbe piaciuto essere The Nature Boy. E questo nonostante sia probabilmente quanto di più lontano possibile dall’Undertaker».


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