Malagò: "Padroni del calcio, è l'ora di cambiare"

La guerra, la crisi, lo sport di vertice: la cruda analisi del presidente del Coni
Malagò: "Padroni del calcio, è l'ora di cambiare"© ANSA
Alessandro Barbano
6 min

C’è un prima e un dopo in questa storia, e tra loro una simbiosi che si muta in odio. Giovanni Malagò ne parla a strappi, con lunghe pause nelle quali intuisci la sua stessa incredulità: «Siamo fratelli, mi dice Sergej Bubka a febbraio nella hall dell’albergo olimpico di Pechino, vedrai che non succede niente. Ma perché quelle truppe alla frontiera?, gli chiedo. Siamo fratelli, mi ripete, non attaccheranno. L’altro giorno lui è qui per incontrare gli atleti ucraini che si stanno allenando in Italia. Allora gli faccio: per me parlare con te o con Elena Isinbayeva, parlare con Valery Borzov o con Shamil Tarpischev era la stessa cosa. E lui mi gela: Giovanni, dice, i russi non li sentiamo più». C’è un prima e un dopo in questa storia, e in mezzo una guerra che scava un cratere e separa due mondi abituati a confondersi. Il più grande saltatore con l’asta di tutti i tempi e il velocista di Monaco ‘72 stanno di qua, l’astista bagnata dall’oro ad Atene e a Pechino e il grande allenatore dei tennisti sovietici stanno di là. Tutti membri del Cio. Ieri una sola cosa. Oggi lontani mille galassie. In una geografia dei sentimenti così martoriata, anche un navigatore consumato come il presidente del Coni fa fatica a districarsi. Quando gli chiedi se lo sport debba cacciare la Russia per punire Putin, o se invece debba salvarla per dimostrare che la Russia non è Putin, si stringe nelle spalle: «Che colpa ha un atleta russo in carrozzina, che si allena da quattro anni per le Paralimpiadi? Converrà con me, se dico: nessuna colpa».

Convengo…

«La pensava così anche il board dell’International Paralympic Committee, quando ha deciso di far disputare i giochi a guerra iniziata. Però, cosa è successo? Che gli altri, e non certo solo gli ucraini, si sono rifiutati. Fate gareggiare loro?, hanno detto. Noi torniamo a casa. Volevano che i russi prendessero posizione contro l’invasione. Le pareva facile?»

Ma che accade se lo sport smette di essere uno spazio franco e un argine estremo rispetto alla violenza della guerra?

«Non lo so. Forse è una domanda troppo impegnativa anche per uno che lo sport lo sente scorrere dentro, come il sangue, da sempre. Perché qui i fatti, anzi i misfatti, cancellano i principi. Certo, tu arrivi a Pechino e pensi ancora che la tregua olimpica sia uno dei capisaldi del nostro mondo. Senti il sacro che precede la cerimonia inaugurale, e pregusti il piacere del ritorno a casa con le medaglie. Stai dentro un bel batuffolo d’ovatta. Poi ti accorgi che qualcosa sta cambiando. Trovi i cinesi, padroni di casa, gli africani, qualche europeo. Tante defezioni. Molti di noi ignorano il pericolo, qualcuno invece l’ha fiutato. Però Putin sta lì, e puoi ancora pensare che il quadretto stia in piedi. Invece lui saluta, torna a casa, e attacca. Attacca mentre i paralimpici scaldano i muscoli! Mi chiedo che cosa possa fare lo sport dentro un mondo così».

Prendere tempo, come ha fatto la Federazione internazionale di basket, perché magari la guerra si ferma e Italia-Russia il primo luglio si potrà giocare?

«Eh no, nell’equivoco non mi ci trovo. Non so come fermare quest’orrore, ma so che non posso fare finta che niente sia accaduto. E so da che parte stare. Con Gianni Petrucci, che ha detto forte e chiaro: l’Italia non gioca. E con gli atleti ucraini. Quelli che si allenano da noi per qualificare alle Olimpiadi un Paese che rischia di scomparire. E quelli che sono rimasti a combattere. Tanti di più. Lo sport e la guerra sono agli antipodi. Uno è l’acme della civiltà. L’altra il fondo della barbarie. Ma sa quanto vale un atleta in una resistenza così disperata?».

Tutti arruolati?

«La maggior parte. Mariti e mogli. Perché il nostro è un mondo particolare: gli sportivi si fidanzano tra di loro. Anche in Italia. Non puoi stupirti che le atlete ucraine abbiano scelto di combattere con i propri compagni. Gliel’ha detto la coscienza». [...]

C’è una relazione tra la crisi del calcio italiano il suo ritardo culturale?

«Sì, nel senso che il calcio è l’unico sport dove esistono ancora dinamiche padronali. Almeno in Italia. In Inghilterra il proprietario non ha mai una gestione diretta della società. Delega, conferma, ricambia. Da noi invece i presidenti se la cantano e se la suonano. Ricordo che, quando da commissario della Lega ho messo in moto la revisione dello statuto per avere un consiglio di amministrazione con presidente, amministratore delegato, consiglieri indipendenti, mi guardavano come uno che volesse violentarli. Eppure giocavo in casa, c’era confidenza e stima reciproca, è gente a cui voglio bene e con cui vado a cena. Ma per loro l’ideale era continuare a mantenere la gestione dell’assemblea partecipativa, in cui si comanda in venti per non far comandare nessuno. Lo stesso accade all’interno delle società. Chi vende i diritti tv non può essere la stessa persona che si occupa dell’erba del campo e del contratto dei calciatori. I bilanci parlano. E dicono che si è perduta la via maestra del risultato economico senza raggiungere traguardi sportivi. Perché Moratti, Berlusconi, e prima l’Avvocato hanno speso sì un sacco di soldi, ma almeno lo sfizio se lo sono tolto, alzando coppe da tutte le parti. Oggi abbiamo solo debiti e umiliazioni fuori dai confini. Guardi il livello, quantitativo e qualitativo, dei diritti tv. Pochi introiti e contenziosi à gogo. Ma dico io: gli americani, che del business sono maestri, sono stupidi a demandare tutto al commissioner?»

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