Pacini e i 'segreti' dell'Italrugby: "Formazione e scouting, così siamo sbocciati"

Il direttore tecnico della federazione racconta come la Nazionale del ct Quesada è riuscita a disputare il suo miglior Sei Nazioni di sempre: cos'ha detto

ROMA - Tre risultati utili consecutivi in quello che è già nella storia come il miglior Sei Nazioni di sempre, un successo casalingo che mancava da decenni, una spina nel fianco di chiunque (Irlanda campione esclusa), un capitano che prima di festeggiare tuona in casa d’altri: «E adesso portate rispetto». Soprattutto l’ottavo posto nel ranking mondiale che mancava da 17 anni, per giunta davanti ad Australia (basterebbe questo) e Galles. A livello di franchigie, infine, due squadre che vogliono essere protagoniste in Europa. Sembra un romanzo distopico, è il presente e il futuro dell’Italia del rugby. Così almeno assicurano il ct della Nazionale maggiore, Gonzalo Quesada, il capitano Michele Lamaro e tutti quelli del gruppo azzurro. Ciascuno a esporre lo stesso concetto: «Non avete ancora visto nulla».

Pacini e i 'segreti' dell'Italrugby

Ma mentre prepariamo i popcorn è giusto guardarci indietro. Vedere cosa è stato fatto per arrivarci, proponendo anzitutto il pedigree di questa Nazionale. L’origine degli azzurri di oggi. Ha inciso sui risultati di oggi più la filiera o più lo scouting? Il direttore tecnico della Federugby, Daniele Pacini, parla di un sistema in cerca di equilibrio tra formazione dei giocatori, loro gestione e i cambiamenti che ruotano intorno a loro. «Il concetto di transizione, negli sport di squadra, è assai complesso. Se poi ragioniamo solo sulla Nazionale, vedremo per esempio che i miglioramenti nel gioco al piede sono venuti da Philippe Doussy o che le ragioni dell’altissima tenuta fisica fino all’80’ dell’ultima giornata sia frutto della preparazione totalmente rivoluzionata da Michele Colosio. Siamo più vicini a quella che Gonzalo chiama spesso identità italiana».

Identità italiana

Perché l’Italrugby del futuro vuole avere contorni netti, partendo dall’«atteggiamento sfidante ereditato da Crowley» e dal nucleo dei classe 1998 (o giù di lì) portato alla ribalta da Smith. I problemi vengono dal triangolo delle Bermuda che spesso sembra crearsi dopo l’Under 20 («Ma se riuscissimo a produrre ogni volta trenta azzurrini perfetti per le due franchigie di URC saremmo materia di studio nelle università. La transizione, negli sport pro’ americani, porta a una scrematura da 10.000 a 100 elementi»), o dalle sirene francesi, come denunciato anche dal presidente della Fir, Marzio Innocenti. «Tra massima e seconda serie, i francesi devono produrre giocatori per ben trenta club professionistici. Dovendo soddisfare requisiti dei cosiddetti Jiff (giocatori della filiera, che hanno giocato almeno tre stagioni nell’accademia di una squadra transalpina o cinque in campionato purché da Under 23; ndc) è ovvio che cerchino di catturare dalle nazioni vicine. Ciò che diciamo noi a giocatori e famiglie è che non è sempre oro ciò che luccica».


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La ricetta per il futuro

Però il divario tra Benetton Treviso e Zebre Parma e massimo campionato resta abissale e le polemiche club-Fir spuntano quasi all’ordine del giorno. «A livello tecnico c’è una grande intesa - assicura però il direttore tecnico -. Da sempre. Talvolta i contrasti riguardano la fase pre-stagionale di alcuni giocatori, con le squadre che vorrebbero gestire per conto loro, mentre noi consigliamo gli allenamenti con le franchigie». Pacini parla inoltre della necessità di «un processo decennale federale nella carriera dei giocatori. Nel basket ne parla anche lo storico coach Valerio Bianchini. E, attaccato a quel processo, come fosse l’anello di una catena, un altro ancora». Tipo un cantiere permanente sull’autostrada per le vacanze. Eviteremo gli ingorghi?


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ROMA - Tre risultati utili consecutivi in quello che è già nella storia come il miglior Sei Nazioni di sempre, un successo casalingo che mancava da decenni, una spina nel fianco di chiunque (Irlanda campione esclusa), un capitano che prima di festeggiare tuona in casa d’altri: «E adesso portate rispetto». Soprattutto l’ottavo posto nel ranking mondiale che mancava da 17 anni, per giunta davanti ad Australia (basterebbe questo) e Galles. A livello di franchigie, infine, due squadre che vogliono essere protagoniste in Europa. Sembra un romanzo distopico, è il presente e il futuro dell’Italia del rugby. Così almeno assicurano il ct della Nazionale maggiore, Gonzalo Quesada, il capitano Michele Lamaro e tutti quelli del gruppo azzurro. Ciascuno a esporre lo stesso concetto: «Non avete ancora visto nulla».

Pacini e i 'segreti' dell'Italrugby

Ma mentre prepariamo i popcorn è giusto guardarci indietro. Vedere cosa è stato fatto per arrivarci, proponendo anzitutto il pedigree di questa Nazionale. L’origine degli azzurri di oggi. Ha inciso sui risultati di oggi più la filiera o più lo scouting? Il direttore tecnico della Federugby, Daniele Pacini, parla di un sistema in cerca di equilibrio tra formazione dei giocatori, loro gestione e i cambiamenti che ruotano intorno a loro. «Il concetto di transizione, negli sport di squadra, è assai complesso. Se poi ragioniamo solo sulla Nazionale, vedremo per esempio che i miglioramenti nel gioco al piede sono venuti da Philippe Doussy o che le ragioni dell’altissima tenuta fisica fino all’80’ dell’ultima giornata sia frutto della preparazione totalmente rivoluzionata da Michele Colosio. Siamo più vicini a quella che Gonzalo chiama spesso identità italiana».

Identità italiana

Perché l’Italrugby del futuro vuole avere contorni netti, partendo dall’«atteggiamento sfidante ereditato da Crowley» e dal nucleo dei classe 1998 (o giù di lì) portato alla ribalta da Smith. I problemi vengono dal triangolo delle Bermuda che spesso sembra crearsi dopo l’Under 20 («Ma se riuscissimo a produrre ogni volta trenta azzurrini perfetti per le due franchigie di URC saremmo materia di studio nelle università. La transizione, negli sport pro’ americani, porta a una scrematura da 10.000 a 100 elementi»), o dalle sirene francesi, come denunciato anche dal presidente della Fir, Marzio Innocenti. «Tra massima e seconda serie, i francesi devono produrre giocatori per ben trenta club professionistici. Dovendo soddisfare requisiti dei cosiddetti Jiff (giocatori della filiera, che hanno giocato almeno tre stagioni nell’accademia di una squadra transalpina o cinque in campionato purché da Under 23; ndc) è ovvio che cerchino di catturare dalle nazioni vicine. Ciò che diciamo noi a giocatori e famiglie è che non è sempre oro ciò che luccica».


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