Coronavirus, perché in Lombardia si muore il doppio

Mentre l’epidemia non arresta la sua marcia proviamo a rispondere a una domanda scomoda: gli ospedali moltiplicatori del contagio? In totale i malati sono 49.118, i morti 8.656. Il tasso di letalità fa paura: è del 17.6% cinque punti più alto della media nazionale. La catena di errori partita da Codogno
Coronavirus, perché in Lombardia si muore il doppio© ANSA
Alessandro Barbano
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Perché in Lombardia si muore di Coronavirus due volte di più rispetto al resto del Paese? È una domanda che nessuno si fa. Qualche virologo ci gira attorno, ma poi rinuncia a formularla esplicitamente. La politica e i media la ignorano. Eppure dalla risposta a questa domanda c’è la chiave per capire che cosa è accaduto al nostro Paese nell’ultimo mese. Proviamo allora a darla noi, mettendo a confronto dati a disposizione di tutti.

In Lombardia si contano 8.656 morti. Se li mettiamo a confronto con il numero dei contagiati, che sono fi nora 49.118, si ottiene il cosiddetto tasso di letalità. La percentuale che ne deriva fa paura: il 17,6 per cento del totale dei positivi non ce l’ha fatta. In Italia i contagiati sono 124.632, i morti 15.362 e il tasso di letalità scende al 12,3 per cento, cinque punti più basso della Lombardia ma ancora molto elevato. Se consideriamo il Paese senza la Lombardia, le proporzioni cambiano: i contagiati sono 75.514, i morti 6.706 e il tasso di letalità scende all’8,9 per cento. Vuol dire che il Coronavirus in Lombardia uccide il doppio rispetto al resto del Paese. Come mai nessuno se n’è accorto?

Torniamo adesso al tasso di letalità nazionale, Lombardia compresa: il 12,3 per cento è più di tre volte quello della Cina (3,9), quasi cinque quello degli Stati Uniti (2,6), e quasi nove quello della Germania (1,4). Una delle spiegazioni che si danno di queste differenze riguarda la diversa quantità dei tamponi: i tedeschi ne hanno praticati 918.460, scoprendo oltre 90 mila positivi, gli italiani ne hanno fatti meno della metà. È facile presumere che le reali dimensioni del contagio da noi siano più ampie di quelle stimate. Ma se anche avessimo fatto il doppio dei tamponi, come la Germania, e avessimo in proporzione il doppio dei contagiati, approssimativamente 250.000 anziché gli uffi ciali 124.632, il nostro indice di letalità sarebbe del 6,1 per cento, quattro volte maggiore di quello dei tedeschi. Perché? Una delle spiegazioni date per giustificare questa sproporzione è la diversa composizione anagrafica dei contagiati. Ma è una pietosa bugia. È vero che l’eta media dei positivi censiti in Germania è di 49 anni, quasi vent’anni di meno rispetto all’eta media dei pazienti italiani. Ma si tratta di un dato bugiardo, che risente del bassissimo numero di tamponi praticati dalla nostra sanità ai cosiddetti asintomatici: in realtà il Coronavirus, in Italia come in Germania, contagia giovani, adulti e anziani, ma uccide in prevalenza questi ultimi. L’86 per cento dei morti tedeschi supera i 70 anni, esattamente come in Italia.

Dobbiamo rassegnarci a dare alle diverse performance una spiegazione più realistica, che contraddice un luogo comune molto caro a noi italiani: quello che ci fa dire che abbiamo la migliore sanità del mondo. È vero: la nostra sanità ha molte eccellenze, ma questo non signifi ca che la sanità nella sua interezza sia un’eccellenza. In questo momento nelle terapie intensive tedesche ci sono 12.500 pazienti, aff etti da Coronavirus o da altre patologie gravi. Occupano meno della metà della capienza disponibile, che è di 28mila unità. Quand’anche l’epidemia dilagasse, ci sarebbero le condizioni ottimali per gestirla senza ingolfamenti, da parte di un sistema sanitario che ha previsto l’ipotesi dell’emergenza. In Italia all’inizio della crisi i posti di terapia intensiva erano appena 5.090, cinque volte e mezzo di meno: nella fase più critica, non sono stati sufficienti a garantire un’off erta terapeutica adeguata alla gravità dei malati che vi giungevano. Qualche medico lo ha ammesso, altri hanno taciuto, ma sappiamo che, nei giorni in cui il contagio è divampato come una fi amma, non c’è stato un respiratore per tutti. E si è trattato di scegliere.

Ma perché, se in Italia si muore di Coronavirus molto di più che in Germania, questa sproporzione si raddoppia in Lombardia? Non si può certo pensare che qui le terapie prestate siano di qualità inferiore al resto del Paese. Anzi, è più facile sostenere il contrario: la sanità milanese, bergamasca, bresciana è unanimemente considerata un’eccellenza in Italia. La risposta alla domanda iniziale è un’altra: i colpiti dal Coronavirus qui sono più fragili che altrove. Perché si tratta in gran parte di pazienti affetti da altre patologie, e già ricoverati o in cura diurna negli ospedali. Che un errore strategico della sanità lombarda ha trasformato in moltiplicatori del contagio.

Tutto è iniziato quando a Codogno s’individua il primo caso. È il 21 gennaio scorso: il malato non viene debitamente isolato e nell’ospedale si diffonde il virus. La struttura viene chiusa e i pazienti, molti dei quali contagiati, sono trasferiti in altri ospedali. Che presto diventano i moltiplicatori dell’epidemia. È mancata in una prima fase un’adeguata protezione? Che cosa non ha funzionato nessuno se l’è chiesto, oltre il recinto della comunità scientifi ca. Ma quando in un solo ospedale centinaia di medici e paramedici risultano contagiati, è certo che qualcosa è andato storto. La Lombardia ha ospedalizzato la crisi, credendo di circoscriverne l’ampiezza, e invece l’ha fatta defl agrare. A tutt’oggi, nella regione più contaminata d’Italia non è dato di sapere quale percentuale del contagio ha una matrice ospedaliera. Ma il numero spropositato di vittime e la loro storia sanitaria potrebbero spiegarlo da sé.

Se siamo da due settimane sull’altopiano del picco, e i morti non cessano a scendere in maniera consistente, è perché quei moltiplicatori del contagio ardono ancora come tizzoni di un incendio spaventoso. Se l’Italia intera dall’8 marzo è un Paese chiuso in una misura, e a un prezzo, che non hanno eguali nel resto d’Europa, è perché quelle lingue di fuoco si sono levate più alte della capacità della scienza di prevederle e di contenerle. Le analisi non servono a imputare responsabilità, soprattutto in un momento come questo. Ma a non ripetere gli errori commessi e a cambiare in meglio. A patto di condividerli. Purtroppo, dopo un mese e mezzo di lutti e privazioni, le sanità regionali continuano a raccontare e a praticare strategie diverse e divergenti, mentre una sintesi fa fatica a farsi strada.


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