Esports: le questioni legali di questa nuova professione
Il mondo del gaming sta crescendo a dismisura. Solamente negli ultimi vent’anni è passato da svago per ragazzi a vera e propria professione. Come molti altri ambiti del mondo moderno, anche quello del gaming, evolvendosi, avrà bisogno di regole e leggi per far si che venga regolamentato. L’interesse intorno al mondo dei gamer va dunque crescendo, insieme alla diffusione e alla popolarità di un settore intorno al quale sembrerebbe essersi attivato un circuito di interessi anche, e forse soprattutto, economici. Preso atto degli investimenti pionieristici di chi ha intravisto nuove opportunità di business nella spettacolarizzazione del gioco online, il mondo legale si interroga oggi sulle frontiere interpretative di un settore che è nuovo e privo di regolamentazione. Ce ne ha parlato l’Avv. Francesco Rotondi, Managing Partner LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners.
Ma è davvero così?
“Ci si occupa, in questa sede, della prospettiva giuslavoristica. Mal posto è anzitutto il problema, fin dalla definizione del settore nel quale collocare il rapporto di lavoro del gamer: “Esports” come se ci fosse ragione per associare i rapporti di lavoro dei gamer al diritto del lavoro sportivo (che peraltro, perlomeno fino alla recente riforma, aveva già di per sé un ambito di applicazione tutt’altro che inclusivo, essendo riservato al solo professionismo)”.
Non è chiaro cosa ci sia di “sportivo” nel gaming.
“A meno di non voler accettare che la definizione di una fattispecie giuridica metabolizzi la circostanza che molte società sportive abbiano deciso di investire in “squadre” di gamer; ma questa è una scelta imprenditoriale (oltreché di immagine) che non dovrebbe condurre il giurista a estendere la portata applicativa del diritto sportivo a fattispecie che di sportivo francamente non hanno proprio nulla”.
Anche la componente di spettacolarizzazione e le finalità ludiche non sono sufficienti ad assimilare il gaming allo sport.
“Del resto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza del 26.10.2017 in causa C-90/16), in un caso riguardante la qualificazione del bridge quale “sport” ai fini dell’applicabilità della normativa fiscale, è giunta ad analoghe conclusioni, qualificando quale “sport” quelle attività che “sono caratterizzate da una componente fisica non irrilevante, senza estendersi a tutte le attività che, per un aspetto o per un altro, possano essere associate a detta nozione”. E dunque escludendo che il bridge possa considerarsi uno “sport” ai fini degli effetti giuridici".
Neppure è chiaro quale sia la lacuna legislativa che l’applicazione del diritto sportivo dovrebbe colmare, e che non possa viceversa essere colmata dal diritto del lavoro.
“Il punto è un altro, ed è quello di individuare una disciplina organica e riconosciuta che regolamenti uniformemente il gaming a livello internazionale e lo legittimi isolandolo dal gioco d’azzardo, ed escludendolo pertanto dal relativo apparato sanzionatorio. È evidente quali sono le esigenze del settore, ed esse non sono sempre comuni a quelle del settore “sportivo” tradizionalmente inteso. Ed infatti se l’esigenza di creare un contesto di legalità nel mondo delle scommesse ed evitare i fenomeni del doping sono comuni al mondo dello “sport”, ci sono lacune legislative che con lo sport non hanno nulla a che fare con lo sport. Si pensi ad esempio alla scivolosa questione relativa alle dipendenze di cui il gamer, spesso di giovanissima età, può restare vittima e da cui deve essere necessariamente protetto. Ma questo non c’entra nulla con il diritto del lavoro”.
La domanda del giuslavorista deve allora essere se il contenuto dell’attività del gamer è lavoro?
“Evidentemente sì, nella misura in cui quell’attività diventa un obbligo contrattuale a fronte del quale il gamer è specificamente remunerato da un ente che ne usufruisce per far partecipare la sua “squadra” a tornei; a maggior ragione se, competizione a parte, il gamer è tenuto a rispettare precise scansioni di allenamenti presso le c.d. gaming house”.
Quale il diritto del lavoro per il gamer allora?
“In Francia è stata prevista una regolamentazione ad hoc (legge 2016.1321 del 7.10.2016) che si è concentrata soprattutto sulla durata dei contratti di lavoro del gamer e sui requisiti di età (forse uno dei punti di maggiore scivolosità dato che il gamer è spesso di giovanissima età). In assenza di una disciplina specifica - e senza alcun bisogno di far ricorso al diritto sportivo - la questione qualificatoria del gamer è la medesima che interessa il rider, il driver, lo shopper e tutte quelle esperienze lavorative nuove, che con difficoltà si confrontano con le tradizionali categorie di autonomia e subordinazione. Non è difficile pensare ad un gamer “dipendente”, e a tale conclusione giungeranno le Corti di merito che rinverranno, nelle modalità di svolgimento dell’attività del gamer, i tipici indici di subordinazione. Molto più probabile, tuttavia, che ancora una volta la sfida qualificatoria del gamer passi dalla valutazione di quei momenti di ingerenza sull’attività del gamer (con riferimento ad esempio ai tempi, luoghi e contenuti delle sedute di allenamento) quali elementi di inserimento nell’organizzazione aziendale ed “etero-organizzazione”, ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. 81/2015, dell’attività lavorativa. Anche se forse, in un contesto che nasce dal (video)gioco, il sindacato eserciterà con meno remore la delega a regolamentare il settore, così evitando gli effetti della norma e conseguentemente l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato”.