La sfida al Coronavirus è una Caporetto, vogliamo parlarne?

La sfida al Coronavirus è una Caporetto, vogliamo parlarne?© LAPRESSE
Alessandro Barbano
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«La chiusura totale non può cessare prima del 13 aprile», dice il premier Giuseppe Conte tre giorni fa. «La chiusura totale non può cessare prima del 16 maggio», dice il capo della Protezione civile Angelo Borrelli ieri, e poi si corregge. «Sulla chiusura decidono i politici», tira corto il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. «Il calcio riparte con il Paese», dicono tutti gli uomini di sport, con un po’ di zucca in testa e senza interessi personali. Ma il Paese è diviso su quando ripartire. A dispetto di ogni appello a far prevalere l’unità d’intenti, la politica diverge dai tecnici, il governo dalle regioni. E la destra dalla sinistra. Tutti hanno ripreso a darsele di santa ragione, tirando per la giacchetta il virus.

La verità è che nessuno è disposto ad ammettere che la nostra sfida all’epidemia è stata una Caporetto nazionale, di cui portano responsabilità, in egual misura, la politica e gli scienziati, i leghisti e le sinistre a Palazzo, la sanità lombarda e il governo. Quindicimila morti, tra cui ottanta medici, interi ospedali contagiati sono, a un mese e mezzo dal primo caso, un bilancio disastroso. Sul quale invano si spargono spiegazioni improbabili, come l’anzianità della popolazione, la convivenza dei giovani in casa, l’inquinamento e altre amene leggende sanitarie. Ma l’idea che gli epidemiologi più attenti, in patria e all’estero, hanno del caso italiano è un’altra: 1) abbiamo ospedalizzato la crisi trasformando le strutture sanitarie in moltiplicatori del contagio; 2) abbiamo inseguito il virus cercando di placcarlo alle spalle, ma facendocelo sempre sfuggire, fin dal blocco dei voli con la Cina, che si è rivelato un boomerang, per proseguire con la chiusura tardiva della Lombardia; 3) abbiamo per settimane rinunciato a estendere il numero dei tamponi, utili a tracciare una mappa del contagio sul territorio.

È innegabile che ci siano handicap cronici del sistema sanitario, che hanno giocato contro. Il primo riguarda la medicina di base. Che negli ultimi due decenni è stata portata fuori dalla gestione dell’emergenza, per compiacere a una pretesa corporativa dei camici bianchi. Lo smantellamento di questo diaframma tra la malattia e l’ospedale è un deficit cronico, ben noto ai ministri che hanno governato la sanità. Non a caso, le astanterie degli ospedali del centrosud durante i week end invernali scoppiano di barelle a ogni epidemia di influenza, offrendo alle telecamere dei tg uno spettacolo indecoroso. Il secondo handicap riguarda le infrastrutture rianimatorie: all’inizio della crisi in Italia c’erano 5.090 posti letto di terapia intensiva, contro i 28mila della Germania. Che ha i tre quarti dei nostri contagi, e un numero di ricoverati persino maggiore (25mila contro 18 mila), ma paga un prezzo di vite quasi dodici volte inferiore!

Di fronte a questi numeri si riavvolge, come in un film, il biennio gialloverde e giallorosso, passato a distribuire redditi di cittadinanza e pensioni a go-go, e a discutere per mesi e mesi di come fermare prima gli immigrati e poi la prescrizione. Che cosa è stato fatto, in questo tempo, per aumentare l’efficienza dei servizi nel nostro Paese? E quando a gennaio tutti i virologi ormai sapevano che il virus sarebbe arrivato anche in Italia, che cosa è stato fatto per non trovarci nudi, per settimane senza neanche la protezione di una mascherina? Può assolverci il fatto che altre grandi democrazie, come Stati Uniti e Spagna, si siano scoperte altrettanto impreparate?

Verrà un tempo in cui torneremo, o piuttosto inizieremo, a valutare questa battaglia dai risultati. Dai prezzi sociali pagati e dalle obbligazioni contratte. Che siano bond europei o impegni con il Fondo salva-Stati, in un caso e nell’altro si tratterà di debiti caricati sulle spalle delle generazioni future. In attesa che ciò accada, non sarebbe opportuno che aprissimo nel Paese una discussione onesta su ciò che non sta funzionando e su come porre riparo? Ridefinendo una strategia sanitaria e sociale, di cui la riapertura graduale è una parte rilevante? Oppure in nome dell’emergenza dobbiamo continuare a chiudere gli occhi?


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