Alberto Sordi, il Marchese del tifo romanista

L'attore e la sua passione viscerale per la Roma. Declinata nei film, nella realtà (ma lontano dallo stadio) e anche nell’amicizia con un maestro di arti marziali laziale
Alberto Sordi, il Marchese del tifo romanista© LAPRESSE
Giancarlo Dotto
7 min

Inverosimile atleta al cinema (podista, sciatore, nuotatore, aspirante battitore di baseball), più che mai improbabile presidente di un calcio da operetta, un club di provincia che compra Omar Sivori (il “Borgorosso Football Club”), Albertone era nella vita di tutti i giorni un tifosaccio dalle budella esposte. Un romanista vero, ergo viscerale. Uno di quelli che spuntano come funghi dai sampietrini di Trastevere e dalle case di Testaccio. Non, per capirci, uno di quei bellimbusti che s’incipriano di giallorosso per la moina di un set televisivo o cinematografico. «Appena nato, il mio primo vagito fu “forza Roma!”», implora da ineguagliabile guitto la moglie Elena che non vuole mandarlo all’Olimpico ne “Il marito” di Nanni Loy.

Dello stesso film è la labbruta pernacchia che Sordi molla al telefono a Peppino («Alla faccia tua e di tutti i laziali»), cult puntuale nei whatsapp dei derby a esito romanista. In “Un borghese piccolo piccolo” perdonerà a suo figlio di essere laziale. Paulo Roberto Falcao è uno dei suoi clienti a bordo di “Zara 873” ne “Il tassinaro” alias Sordi nella parte di Pietro Marchetti. «Lei è un grande romanista che ha fatto molto per Roma e per la Roma» fa ruffiano a un altro suo cliente, Giulio Andreotti. «Non era un giallorosso di facciata» conferma Edoardo Pesce, romanista anche lui, bravissimo nel recente film Rai a scongiurare il quasi inevitabile rischio di caricaturizzare Sordi,

Nella banda delle braghe corte, Alberto era tra i ragazzini che dopo aver giocato con la palla di stracci per la strada si arrampicavano sul Monte dei Cocci per guardare a scrocco le partite della Roma al campo Testaccio, vedendo il prato solo a metà. Per sapere il risultato dovevano imbucarsi al Vittoria, il cinema lì vicino, dove il direttore, il popolare “Cacarazzi”, detto così per il riporto che ricordava i raggi delle biciclette, li informava in cambio della loro buona condotta. Quando i calciatori erano miti senza facce e avevano a malapena un nome.

Romanista a vita. Mai un tentennamento. Tracce inequivocabili del Sordi “vero romanista” degli ultimi anni affiorano a decine nelle sue conversazioni private con l’amico Marcello Cola, maestro di arti marziali e tifoso da starci male della Lazio. Emigrato in America negli anni ’80, dopo aver scavalcato da clandestino la frontiera di Tijuana e quasi ucciso di botte per questo, tornato in Italia da qualche anno per decubito dell’anima da lancinante nostalgia. I due si conoscono a San Francisco nella primavera del 2002. Ospite di Francis Ford Coppola all’università locale, Sordi tiene una lezione sul cinema italiano, Steno, Monicelli, Risi, Fellini, Olmi. Alla fine, nel corteo degli italiani in fregola, c’è anche lui, Marcello Cola, ruspantissimo sosia di Gianfranco D’Angelo, diventato nel frattempo un riferimento nella comunità cinese dove il mito è Bruce Lee. «Mister Sordi, me lo fa un autografo?». «Di dove sei, Marcellone?». «Sono di Tivoli, mister Sordi». «Allora sei un burino laziale… e che ci fai qua a San Francisco?». «Insegno arti marziali». «Allora meni…». «No mister Sordi non meno, sono al servizio dei deboli». «Allora sei al servizio della Lazio…».

L’argomento Roma e derby era pane quotidiano nella frastica del trasteverino Sordi, sulla lama del sarcasmo alla Marchese del Grillo. Tra i due scoppiò una grande simpatia. Devozione nel caso del ragazzo di Tivoli. Affetto nel caso di Alberto, che vedeva in Marcellone l’occasione di rinverdire la galleria antropologica delle maschere sordiane. L’avesse incrociato trent’anni prima sarebbe certo finito in un soggetto cinematografico da scrivere a quattro mani con Rodolfo Sonego. I due hanno continuato a telefonarsi e a vedersi, anche dopo il ritorno di Cola in Italia.

Duellanti all’infinito sul tema Roma e Lazio. Albertone, pochi lo sanno, aveva in cassaforte un’anima crepuscolare, quasi sempre venduta al demonio della battuta. Il racconto che fa al telefono all’amico Marcello di quella volta che, 1955, tornò dall’America dopo aver ricevuto le chiavi di Kansas City. «L’America è bella, Marcè, ma più bello è l’aereo che te riporta a Roma. Volando sopra le campagne intorno Roma, dall’alto vedevo i contadini che lavoravano la terra, i tuoi amici burini laziali. Poi, arrivati sul cielo di Roma, questo indimenticabile tramonto giallorosso. Giallorosso Marcè, non biancoceleste...». Storia di derby e di scommesse. Quella volta che, dopo un derby perso, Alberto pagò pegno invitando il “Toro di Tivoli”, così lo chiamava, all’Apuleio, la tana all’Aventino di Sordi. Marcello conquistò definitivamente Alberto, spaccando con la mano un mattone di travertino sul tavolo e piegando una sbarra d’acciaio con la gola.

A tavola quel giorno con il maestro Piero Piccioni, già euforico tra Verdicchio e “macerino”, Sordi abbracciò il Toro di Tivoli, quasi soffocando. «Così me spacchi le ossa, Marcellone… Peccato che sei nato laziale», gli sussurrò. Concetto replicato al telefono. «Marcello, so che sei una persona sincera e onesta, so quanto hai sofferto. Ti voglio bene… anche se sei laziale». Tre giorni prima di morire. La sorella Aurelia, romanista almeno quanto il fratello, invitata all’Olimpico nel derby dopo la scomparsa di Sordi, obbligata da copione a dire “Vinca il migliore”, confessò: «Mentre lo dicevo, ho fatto le corna».

Sempre all’Apuleio ci fu la fotografatissima stretta di mano di Sordi con Dino Viola. Altra istantanea celebre nella galleria del Sordi romanista, lui al fianco di Di Bartolomei, Agostino colto in uno dei suoi rarissimi sorrisi. Allo stadio proprio non ce la faceva ad andare, Sordi, vuoi per gli orari per lui impossibili, vuoi per la pigrizia. Ma, dalla sua casa mausoleo di piazzale Numa Pompilio, non si perdeva un minuto in televisione della sua Roma. Siparietti inevitabilmente romanisti con Carlo Verdone, sul set di “In viaggio con papà”, amabilmente conflittuali con il laziale Rutelli che gli consegnò per un giorno la fascia di sindaco, per il suo ottantesimo compleanno. “Tutti zitti, il Marchese s’è addormito”, lo striscione che apparve in curva Sud la domenica dopo la sua morte.


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