Gianfranco de Laurentiis, le parole che non mi hai detto

Fino alla fine figlio del suo tempo: niente social, ma solo teleschermo, giornali e sport
Gianfranco de Laurentiis, le parole che non mi hai detto
Paolo de Laurentiis
4 min

In tutti questi anni non abbiamo mai parlato di lavoro ma sempre e solo di sport. Il lavoro, il nostro lavoro, alla fine è stato una scusa per vivere dentro un mondo straordinario, unico, dove chi vince vince e chi perde fa i complimenti all’avversario. Puoi viverlo come atleta, allenatore, dirigente e anche giornalista, scegliendo di raccontarlo. Papà amava questo: le imprese sportive. Tutte, senza distinzione anche se l’acqua è sempre stata speciale, per lui e per me. Se esiste un destino, è quello che ci ha fatto passare l’ultima giornata insieme in piscina, questa estate, quasi due mesi fa. Poche bracciate, niente di più. Non l’ho più rivisto, perché il distanziamento da Covid non fa regali né lui - conoscendolo - ne avrebbe voluti. Raccontare lo appagava e proprio per questo, credo, non ho mai avuto la sensazione che potesse sentirsi più importante di atleti che ha sempre rispettato profondamente, per le emozioni di una vittoria e ancora di più per i sacrifici fatti per regalarcele. Da lui non ho mai avuto una lezione di giornalismo. Oggi, da genitore di due ragazzi adolescenti che stanno trovando il loro posto nel mondo, posso dire che è stato il più grande regalo che potesse farmi. Mi ha dato la libertà. Di sbagliare, riprovare, e alla fine decidere cosa fare nella vita («Pensaci tu, tutti i lavori sono nobili se fatti bene») e nel momento in cui ho scelto la sua stessa strada non me l’ha mai fatto pesare. Si è fidato, io sapevo che si fidava e che comunque era lì. Ma forse sapeva anche che mi sarebbe bastato osservare lui per capire cosa era giusto e cosa no, come trattare un argomento piuttosto che un altro. Non ci siamo mai presi troppo sul serio, neanche sui conflitti generazionali. A me piaceva provocarlo («Ai vostri tempi eravate in 5: due tv e tre giornali. Oggi se scriviamo mezza riga sbagliata ci coprono di insulti. Siamo nettamente più bravi noi») ma era un cazzeggio, niente di più. Tutti e due sapevamo che i confronti tra generazioni sono una sciocchezza, per questo ne ridevamo.

Lo sport e la tv piangono Gianfranco De Laurentiis

E’ rimasto fino alla fine figlio del suo tempo: non un account social o un profilo facebook. Tanti giornali e ovviamente la tv. Entrare ieri notte nel suo studio, dove dal giorno del ricovero le copie del Corriere della Sera e del Corriere dello Sport stavano crescendo sulla scrivania in attesa di un ritorno a casa che non c’è mai stato, è stato un viaggio nel tempo: la cartellina con la classifica di serie A, un vecchio cronometro con una sola lancetta, gli almanacchi, ritagli messi da parte, qualche pezzo o titolo sottolineato, le collezione della Tribuna Illustrata. Continuava a seguire il suo mondo, a tenersi aggiornato, orgogliosamente in pensione. E di questo - sì - abbiamo parlato seriamente perché ne era silenziosamente fiero: «Se esiste un patto tra generazioni, io sono quello che lo rispetta. Ho lavorato, ho fatto quello che dovevo e volevo, ora tocca a voi e poi ai vostri figli. Fra le tante cose che posso fare non può esserci quella di togliere spazio alle generazioni successive». L’ha fatto davvero, senza dirlo. Saper apprezzare le scelte gratuite, quelle che nessuno ti obbliga a fare, è un’altra delle cose che porterò con me. Come il suo unico, vero, grande consiglio: «La cultura non è sapere le cose ma sapere dove trovarle». Riposa in pace papà, i tuoi nipoti già lo sanno.

Ps. Non so chi sia, non ha neanche un volto perché nascosta dalla mascherina. Ma volevo ringraziare l’infermiera del Policlinico Gemelli. C’era lei in quel momento, noi non abbiamo fatto in tempo. Quando siamo arrivati abbiamo parlato qualche minuto. Pochi momenti, sufficienti per capire di avere di fronte una persona che non stava solo lavorando. 


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