Rivera: «Corea, staffetta e arbitri, ecco tutta la verità»

L'intervista di Walter Veltroni sul Corriere dello Sport-Stadio in edicola: «Nella finale di Messico '70 qualcosa cambiò all'improvviso»
Rivera: «Corea, staffetta e arbitri, ecco tutta la verità»
Walter Veltroni
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ROMA - La prima volta che ho visto, “dal vero”, Gianni Rivera era un giorno di maggio del 1968. No, non eravamo ad un corteo studentesco dei tempi della contestazione. Io avevo tredici anni ed ero un ragazzino molto timido. Leggendo il Corriere dello Sport avevo appreso che quel pomeriggio i calciatori della Nazionale convocati per disputare l’Europeo sarebbero andati a Via Allegri, sede della Figc, per non so quale manifestazione. Mi feci coraggio, mi dotai di blocchetto e penne e mi recai all’indirizzo indicato, peraltro vicino a casa mia. Arrivai con largo anticipo ma pian piano la strada si riempì di miei coetanei, sfrontati e agguerriti, che aspettavano i nostri comuni eroi con uno sguardo e una sicurezza da esperti collaudati. Io non lo avevo mai fatto, di chiedere autografi. Quando i giocatori scesero dal pullman mi passarono davanti, alti e autorevoli, senza che io riuscissi ad intercettarne uno, neanche il meno conosciuto. Niente, blocchetto intonso e penne asciutte. Stavo, senza saperlo, anticipando Fantozzi. Versione under 13. Incontro Gianni Rivera proprio qui, in Via Allegri. Lo vidi scendere, capelli corti e faccia sicura, da quel pullman. E ora lo ritrovo qui, taglio beatlesiano e ufficio da dirigente del settore tecnico. Ora sta per uscire la sua autobiografia “Gianni Rivera ieri e oggi” e ha un suo canale su Youtube e su tutti i social network che, in verità, gli sembrano un po’ una diavoleria. Ci conosciamo da anni. E, per l’ironia gentile della storia, quel ragazzino timido, diventato Sindaco di Roma, poi chiese a Rivera di diventare il suo delegato ai problemi dello sport. Rivera è stato uno dei più grandi calciatori della storia. Ha vinto un Pallone d’oro, due Coppe dei campioni, tre scudetti, una Coppa Intercontinentale. E’ stato indicato al ventesimo posto nella classifica dei migliori giocatori del XX secolo. Vedeva il gioco come avesse venti diottrie, aveva dei piedi che sembravano mani, una intelligenza calcistica da laurea con bacio accademico. Lei è nato il 18 agosto del 1943. Una data difficile. «I miei sono originari di una frazione di Alessandria. Si chiama Valle San Bartolomeo. Mia madre era figlia di un oste. Mio padre di un contadino. Papà aveva passione per il calcio ma nonno aveva più passione per i campi e gli fece lavorare la terra. Forse da mio padre è arrivato il talento o forse il dispiacere per una passione frustrata si è tramutata, per magia, nella facilità con la quale ho sempre giocato al calcio. Papà per sfuggire alla durezza della campagna diventò fabbro e fu assunto in ferrovia. Alessandria era uno snodo importante e per questo molto bombardato. I miei, nel 1943, tornarono al paese. E lì, nella casa dell’oste, nacqui io». Lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno nacque Roberto Rosato, fantastico stopper che giocò con lei nel Milan e in Nazionale. «Lui era un gran giocatore. Si alzava in volo come una piuma. Era acrobatico, intelligente tatticamente. Era tosto, certo. Ma molto corretto. Ci vedevamo a cena con Schnellinger e lui. Se avessi saputo che grazie al mio biondo amico tedesco avrei segnato il gol più importante della mia vita…». Ne parleremo.

Com’era il primo pallone con il quale Rivera ha giocato?
«Da ragazzino all’oratorio con quelli di gomma dura. Da calciatore di cuoio. Da poco avevano tolto i lacci ed era arrivata la valvola. Però il cuoio giallo diventava micidiale, se pioveva. E ad Alessandria piove mica poco... Per colpire di testa ci voleva l’elmetto».

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Anche nel ‘70 lei è sempre al centro dell’attenzione. La staffetta con Mazzola….
«Premessa. Sandro e io abbiamo un ottimo rapporto e abbiamo sempre giocato insieme, prima e dopo. Tranne quei venti giorni. In Messico io stavo bene. Era il momento migliore della mia carriera e per di più mi sono adeguato benissimo all’altitudine. Ma ho capito subito che non avrei giocato. Valcareggi subiva le pressioni di Mandelli, il capo delegazione, che a sua volta subiva quelle dei giornali che non mi amavano. Sbottai. Minacciarono di mandarmi a casa. Ma non lo fecero. Così si inventarono la staffetta. Non aveva nessun senso tecnico, ma funzionava. E siccome funzionava, nell’ultima partita, la più importante, non la fecero più. Le sembra normale?».

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