Addio grande Cruyff, il mondo del calcio piange la scomparsa di un mito

Il fuoriclasse che ha segnato un'epoca, lo sport perde uno dei suoi maggiori interpreti
Addio grande Cruyff, il mondo del calcio piange la scomparsa di un mito© EPA
Alessandro Vocalelli
6 min

ROMA - Vi diranno chi è stato Johan Cruyff. In molti si divideranno sulle gerarchie dei più grandi di sempre: Pelè, Maradona, Di Stefano, chissà in che posizione ritroverete questa leggenda olandese. Dino Zoff, all’interno, proverà a mettere ordine, dividendo quelli che ha visto, o di cui ha sentito parlare, da quelli a lui più vicini: con i quali ha giocato o ha dovuto affrontare. Una guida speciale, una lezione universitaria, sulla storia del calcio. Personalmente, e modestamente, non saprei su quale gradino inserire Johan Cruyff da calciatore.

Ho però il ragionevole dubbio, o la discutibile certezza a seconda dei punti di vista, che nessuno più di lui abbia rappresentato complessivamente l’essenza e la bellezza del calcio. Cruyff è stato l’unico che comparirebbe in una doppia classifica: tra i fuoriclasse del campo e i fuoriclasse della panchina. Perché anche da allenatore, con i capelli a caschetto e lo sguardo eternamente accigliato, ha lasciato un’impronta fortissima. Capace di vincere quattro scudetti consecutivi e, soprattutto, la prima Coppa Campioni della storia col Barça. Con il suo calcio duttile, armonico, i centrocampisti ad assecondare un pensiero molto più che uno scatto, uno stile inimitabile. Complessivamente, tra giocatore ed allenatore, Cruyff è stato insomma - parere strettamente personale - il più grande. Il più grande di tutti. Anche se è inutile dire che tre generazioni sono rimaste incantate, rapite, stordite, soprattutto dal suo modo, rivoluzionario, di stare in campo. Dal suo modo di fare, in velocità, ciò che ad altri non riusciva da fermo.

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Da quel portamento inusuale, così trasgressivo nella sua naturalezza. Cosa fanno, o cosa facevano, anche i più grandi col pallone tra i piedi? La schiena incurvata in avanti, a protezione, per poi aprire improvvisamente il compasso. Cruyff, no. Le spalle dritte, allargate, per dare forza a due leve veloci e instancabili, il pallone spesso toccato d’esterno, come un pugile che corre e abbassa la guardia: venite a prendermi se ne siete capaci. I capelli lunghi, il 14, la maglia arancione: i simboli della sua rivoluzione nel football. Uno dei Beatles, come loro moderno e ossessionato da uno spartito invisibile, inimitabile. Lui, capofila o capobranco, di una scolaresca trasgressiva e geniale, di un branco di lupi affamati: di quella, leggerissima, voglia di divertirsi. Dicono che il suo calcio, il loro calcio, sia stato un esempio di modernità. Ma è moderno, o tradizionale, mettersi l’uno al servizio dell’altro? Sfidando rivalità e gelosie. È modernità tutto questo? O è vero il contrario? È responsabilità, tradizione, semplicemente passione. È il calcio, è la vita, senza convenzioni, senza il pericolo di domandare a se stessi qual è il proprio ruolo. Perché al di là della metà campo c’è qualcun altro che deve pensarci.

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Questo è stato l’Ajax, questa è stata l’Olanda di un ragazzo che, con il suo carattere ruvido, è riuscito però a farsi amare. Perché il calcio, più che uno schema o un modulo, è soltanto una traiettoria, come quelle che Cruyff disegnava sul campo, inseguito dalla sua ombra e inseguendo la suggestione di poter sorprendere. Sempre. Anche se stesso. Dicono, e vi diranno, che quella sua Olanda, quell’onda arancione, ha però avuto il limite di essersi fermata - anche con lui, nel ’74 - a un soffio dalla vittoria Mondiale. Un’incompiuta, un’opera d’arte senza la firma. Una sciocchezza, uno sfregio, alla percezione della felicità. Perché dai sogni più belli ci si sveglia, consapevolmente, un attimo prima di arrivare al finale. Perché non bisogna sapere come va a finire la storia. Perché il resto è banalità, è - semplicemente e futilmente - realtà.

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