Il "diritto" all'insulto alibi di chi non cambia

Il "diritto" all'insulto alibi di chi non cambia© LAPRESSE
Alessandro Barbano
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C’è un diritto alla maleducazione? Chiunque frequenti uno stadio in Italia si convince che sì, esiste eccome. Tant’è vero che si può offendere per tutta la gara Gasperini, come hanno fatto ieri i tifosi viola, apostrofandolo “figlio di p…”. E si può restituire l’offesa, come ha fatto il tecnico dell’Atalanta in conferenza stampa. Uno a uno e palla al centro: se la Fiorentina vince sul campo, il derby del trivio finisce alla pari. Si dirà che certe ruggini sono dure a cadere. Gasperini aveva dato del “cascatore” a Chiesa, per una simulazione in area che valse alla Fiorentina il rigore e poi la vittoria sull’Atalanta per due a zero. Era il 30 settembre del 2018. Si dirà che la memoria del tifoso è come un ferro vecchio, su cui gli incerti del campo scavano incancellabili cicatrici. Si dirà ancora, con le parole di eminenti sociologi, che gli spalti di uno stadio sono da sempre la sentina delle peggiori emozioni. Tanto che ci sarebbe da consolarsi quando queste si scaricano nella violenza della parola piuttosto che in quella dei corpi.

Però queste spiegazioni sono un alibi per non cambiare. Trent’anni fa l’Italia era un Paese dove milleottocento persone all’anno morivano per omicidio. Nel 2019 le vittime sono state appena duecentosettantasei, sei volte di meno. Questi numeri descrivono una comunità pacificata. Ma gli stadi restano uno spazio franco, dove il tempo si è fermato. Uno spazio abitato, anzi occupato, dal lato peggiore di noi. Non basteranno poltroncine, telecamere, steward a riempirlo di famiglie, poiché l’architettura è solo una parte del problema. Né basteranno le sanzioni, per doverose che siano. Per scardinare il preteso, ancorché inesistente, “diritto” alla guerra, alla discriminazione, all’insulto bisogna rifondare l’immaginario dell’atleta e del tifoso: cioè le parole, le emozioni e i riti con cui il calcio si celebra e si racconta. Un’operazione a cui è chiamata soprattutto la classe dirigente sportiva. Perché le emozioni collettive sono come un sasso gettato nello stagno: vanno dal centro alla periferia. I protagonisti hanno perciò una responsabilità doppia, in campo e fuori. Nel parlare e nel reagire. Ma questa battaglia civile non si vince sul piano morale: lo sdegno e la censura sono armi spuntate. Poiché la maleducazione si autolegittima nella sfida alle regole. Per mandarla in fuorigioco ci vorrebbe una dose supplementare di ironia, qualità di cui il calcio purtroppo scarseggia.


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