Prima la vita

Prima la vita
Ivan Zazzaroni
4 min

C’ è un calcio che va avanti in Europa (per quanto tempo ancora?) e un calcio che si ferma in Italia insieme con tutto il Paese. Tremenda condizione - la nostra - di faro del mondo. Tutti ci osservano tenendo d’occhio i pochi fasci di luce che solcano il buio di un periodo tragico. Alcuni ci considerano gli untori del Continente perché dopo la Cina il virus ha scelto di colpire proprio l’Italia. Abbiamo ancora il maggior numero di contagiati e di morti soltanto perché - affermano gli esperti - da noi Covid-19 è arrivato prima. Inizialmente molti di noi hanno sottovalutato il problema, altri hanno responsabilmente provato a convincerci che la cosa era ed è seria, fin troppo seria. Una guerra senza armi contro un nemico invisibile e in gran parte sconosciuto.

Nelle ultime ore, però, la maggioranza degli italiani ha (forse) capito le dimensioni del dramma e quale atteggiamento tenere: l’unico modo di sviluppare il senso di responsabilità nelle persone è affidare loro delle responsabilità.

Al calcio di vertice era stato chiesto di andare avanti a porte chiuse, tutte le altre attività sono state toccate e in gran parte sospese. Il calcio no, il calcio ha goduto di un trattamento di favore che tuttavia è durato un istante. Domenica, tra un ripensamento dell’ultima ora e un’attesa imbarazzante, il gioco non si è fermato.

Le ho guardate tutte, le partite. Una - delle due in contemporanea - l’avevo registrata. Di Juve-Inter non mi sono perso un solo minuto e ieri sera non ho trascurato neppure Sassuolo-Brescia, che nei giorni dell’ormai dimenticata normalità avrei probabilmente saltato: un weekend di calcio televisivo procura overdose.

Non mi ha pesato l’assenza del pubblico, mi sono concentrato sull’aspetto tecnico: il gol di Dybala mi ha entusiasmato. Ogni volta che dalla bocca di un telecronista o di un commentatore usciva l’aggettivo “surreale” provavo una forma di irritazione: la sola cosa surreale in questo momento sarebbe la resa senza condizioni.

Il calcio ai tempi del virus mi ha distratto più che in altre occasioni e per una forma di egoismo solo in parte giustificabile ho sperato che il ministro Spadafora tornasse sui suoi passi rilanciando il primo intervento sulla trasmissione in chiaro e sullo sport più amato e seguito «la cui vocazione più autentica è quella di unire e consentire a tutti di godere di uno spettacolo emozionante, senza ansie, né paure». Il secondo (intervento) mi ha disturbato. Ma in un momento come questo, così angosciante, due sono gli ordini di valore purtroppo confl iggenti, due i beni in gioco: la salute pubblica da un lato, ed è decisamente prevalente, e l’esigenza di normalità e di serenità che la conservazione di un’abitudine può garantire, dall’altro. Il vaccino della routine.

Andava proprio in questa direzione la decisione di proseguire a porte chiuse con il campionato di Serie A. Ma la gravità della crisi sanitaria supera anche questa mediazione. Lo stop (al Paese) del Governo assegna al calcio un altro ruolo, quello di condividere non solo le ansie e le paure, ma anche le responsabilità.


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