Chissà come saremo dopo

Chissà come saremo dopo© LAPRESSE
Ivan Zazzaroni
3 min

Come saremo quando tutto questo sarà passato? Quando saranno solo ansia e ricordo la paura, la segregazione, la solitudine forzata, le abitudini sospese, le vite interrotte, la crisi economica, il No Sport? Il dopo-virus ci troverà diversi?

È una domanda che mi pongo spesso in questi giorni di vuoto, un buco profondissimo che provo a riempire anche controllando le agenzie, inseguendo le buone notizie, sempre troppo poche, aspettando i numeri serali di Borrelli così come i nostri nonni attendevano la voce di Harold Stevens, il “colonnello Buonasera”: «Qui Radio Londra, l’aquila vola», in effetti quella di Inzaghi volava.

Ieri ho chiamato Ancelotti a Liverpool, ci siamo raccontati le ultime, mi ha detto di non essere ancora in isolamento ma che presto ci sarebbe andato poiché uno dei suoi giocatori aveva accusato i sintomi del Covid-19. Carlo mi ha lasciato con un augurio: «L’Italia ne uscirà, avete fatto bene a chiudere tutto. Forse in Inghilterra qualcuno non c’è ancora arrivato. Ne uscirete prima perché prima degli altri siete stati colpiti».

Per anni abbiamo avuto paura del terrorismo, di una terza Guerra Mondiale, abbiamo considerato tutte le variabili, le più terrorizzanti, prima di essere sorpresi dal nemico invisibile. Un nemico di cui talvolta siamo i principali alleati e che non fa distinzioni. Oggi facciamo i conti con una realtà fantascientifica: mai avremmo immaginato di poter essere obbligati a non uscire di casa, a tenerci a distanza di sicurezza non solo dagli sconosciuti ma addirittura dai nostri cari. Già, come saremo dopo, un dopo che vorremmo arrivasse subito? La risposta che inseguo e sogno è una forma di consolazione. Prima del maledetto virus avevamo raggiunto dei livelli di maleducazione, inciviltà e isteria senza precedenti, eravamo diventati “invivibili”, insopportabili. Temo solo una risposta: come prima.

La temo, ma non ho più l’età dell’illusione, né la smemoratezza di un ragazzo che dagli studi prende ciò che vuole, soprattutto il “pezzo di carta”. Mio padre si era chiesto la stessa cosa, dopo aver ascoltato l’angoscioso interrogativo da suo padre. E mi rendo conto che solo un popolo giovane, nato ieri, può credere d’essere al centro o alla fine della storia. Nei millenni il virus della peste e quello della guerra si sono diffusi così tante volte che n‘è nata una storia non stringata e fredda ma letteraria, romanzesca, trasferita in libri, in film, in musica.

Colpevole dimenticanza? No, abbiamo preferito trasformare le tragedie in cultura. Il dubbio è un altro: andare avanti vuol dire migliorare? Ci saremo davvero lasciati alle spalle il peggio? Chissà perché quando si comincia dicendo «c’era una volta...» il seguito è una favola.


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