Ministro, non sia complice dell'emergenza

Ministro, non sia complice dell'emergenza© ANSA
Alessandro Barbano
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Che senso ha impedire alla più grande impresa di emozioni del Paese di rimettersi in moto? Che senso ha negare ai calciatori di allenarsi, in condizioni di sicurezza, per prepararsi a giocare a porte chiuse, quando si potrà? Conosciamo la risposta a queste domande: il calcio non è tra le attività strettamente essenziali. Però, del calcio il Paese potrebbe avere bisogno, soprattutto in quella fatidica fase due, che a Roma si studia e al Nord è già iniziata. Propiziata da un contagio che finalmente allenta la morsa. Sotto sotto, l’Italia sta ripartendo. Con un’autocertificazione la maggior parte delle imprese settentrionali ha riaperto i battenti. In deroga. Come si conviene a un Paese che fa leggi e divieti oggi, per eluderli domani.

Anche in tempi di Coronavirus, c’è qualcosa di diabolico in quest’attitudine al sotterfugio della classe dirigente. Quella che guida la Lombardia ha preteso e ottenuto il lockdown completo, cioè la chiusura totale di tutte le attività produttive, tranne quelle strettamente essenziali. Poi, preoccupata di perdere terreno sui mercati, ha trovato il modo di aggirare i paletti che ha imposto al Paese. Un protocollo, promosso dal governo tra sindacati confederali e Confindustria, autorizza la ripresa di settori che, pur non ritenuti essenziali in sé, sono tuttavia essenziali a quelli essenziali. Scusate il gioco di parole. Che mostra, nella sua doppiezza, l’abilità con cui tutti gli anelli di una filiera produttiva sono stati rimessi in moto. Negli ultimi giorni migliaia di imprese, dal Veneto al Piemonte, passando per l’area bresciana e bergamasca più colpite dall’epidemia hanno ripreso a lavorare. Così, mentre virologi e scienziati di ogni disciplina discettano sui tempi della fase due, la fase due è arrivata con una deroga fai-da-te, scritta dagli imprenditori in un’autocertificazione e inviata alla Prefettura competente, che non ha né il tempo né il personale per esaminarla. Ma se pure l’Italia è ripartita in deroga, c’è da rallegrarsi. Il prezzo sociale ed economico che il Paese sta pagando non ha né precedenti nella sua storia repubblicana, né eguali in Europa.

Però, una norma inderogabile c’è. È il divieto agli allenamenti dei calciatori professionisti. Nello stato d’eccezione in cui è stata adottata, non mostra altra ragione se non quella di un dispetto del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, ai club. Non a tutti, in verità. Ma a quelli che si battono per salvare il calcio, e non solo il proprio portafogli. Qual è la cosiddetta ratio di questo divieto? Proteggere la salute dei calciatori? C’è più rischio in una sgambata pomeridiana all’aperto, o in otto ore di lavoro alla catena di montaggio, o ancora sui camion della nettezza urbana? La risposta a queste domande ci riporta alla ragione che il calcio ha nella nostra comunità. Ammettiamo che, in base ai criteri dell’emergenza con cui selezioniamo in questi giorni i nostri bisogni, il calcio non è essenziale, e non è neanche essenziale a qualcosa di essenziale. È inessenziale, come lo sono i sogni, le grandi emozioni, le passioni che in un’altra vita, appena un mese fa, nutrivano le nostre giornate. E che ora ci sembrano tanto lontane. Se pure ce le ha tolte l’emergenza, non facciamoci suoi complici, rinunciando a desiderare, a preparare le tante cose inessenziali eppure bellissime della nostra normalità. Onorevole Spadafora, si ricreda. E provveda. C’è sempre una deroga nella borsa di un ministro.


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