A porte chiuse (per un po') il calcio riappare

A porte chiuse (per un po') il calcio riappare© Inter via Getty Images
Ivan Zazzaroni
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«Lo dice il poeta: a porte chiuse il calcio scompare», così Beppe Severgnini sul Corriere della Sera. Errore: a porte chiuse il calcio riappare. Lo dico io, che non sono un poeta, solo un giornalista sportivo, non amo particolarmente la poesia ma ho giocato a calcio e con il calcio tutta la vita. «Ci manca il calcio, in queste settimane di astinenza forzata?» si domanda nello stesso articolo Severgnini. Che si risponde: «meno di quanto immaginassimo. Se fosse così sarebbe utile capire perché». Dal momento che così non è - a milioni di italiani manca da impazzire -, mi limito a un paio di considerazioni solo apparentemente poetiche.

Dopo aver pubblicato i versi di Vittorio Sereni, l’autore di “Interismi”, “Altri interismi” e “Tripli interismi” chiude con queste parole: «A porte chiuse, il calcio si spegne e scompare. Non facciamo errori, al momento di ripartire. Fidiamoci dei poeti: vedono lontano». Non troppo lontano, questa volta, dal momento che al calcio a porte chiuse dovremo abituarci per un po’, non per due soli mesi. La vera essenza del calcio la percepisce chi a calcio ha cominciato a giocare a sette, otto anni e dopo mezzo secolo non ha ancora smesso, almeno con la testa. Undici contro undici, l’arbitro, due guardalinee spesso improvvisati e poco importa se in tribuna o ai lati del campo ci sono tuo padre o tuo nonno con altri quattro genitori e non i sessantamila di San Siro.

Il mio poeta involontario preferito, Eric “Dieu” Cantona, un giorno disse: «Io non gioco contro una squadra in particolare. Io gioco per battermi contro l’idea di perdere». Questo è il calcio, this is football (mi adeguo a Beppe). Il pubblico, i tifosi, i “millemila” lo rendono fenomeno sociale, la televisione fenomeno di massa. A porte chiuse, per tutto il tempo in cui dovrà sottostare a questa condizione, il calcio riacquisterà il suo significato originario, la sua umiltà e la sua nobiltà, accantonando le tante miserie, e sarà un bene per tutti. I calciatori dovranno dimostrare quanto valgono sul piano tecnico e del carattere senza il contributo di stimoli esterni. L’arbitro con poca personalità non subirà i condizionamenti “della bolgia”. Non sentiremo cori contro i giocatori di colore, né contro i napoletani. Non saranno esposti striscioni di odio. Per un po’ nessuno ci spiegherà che i buu razzisti sono semplicemente degli sfottò. Seguiremo le partite alla televisione prendendocela con il telecronista che non becca un giocatore o il commentatore che chissà cosa avrà visto. Ma tanto loro non ci sentiranno. Apprezzeremo la partita in sé, le giocate, gli atteggiamenti, i disegni tattici, le strategie, il calcio più autentico, l’originale. Che può avere appassionati che vanno ben oltre lo stadio vuoto. Come Jean Paul Sartre: «Nel calcio tutto è complicato dalla presenza della squadra avversaria».

Il Corsera nutrì ben altri nemici del pallone, come il redattore in attesa di Nobel Eugenio Montale: traviato dal bomber delle Olimpiadi 1936 Annibale Frossi, firma illustre di Via Solferino e sostenitore dello zero a zero come risultato perfetto, Montale (oddio, un altro poeta, il Poeta) lanciò un anatema, fortunatamente a vuoto: «Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo». Ma le pagine sportive erano in mano a Gino Palumbo e Antonio Ghirelli, autentici profeti del gol. Io che non ho vissuto a Washington DC, ma sono cresciuto a Bologna PCI e da un po’ vivo a Monza MB, riprendo le parole di uno scrittore amatissimo dai calciofili intellettuali (come Severgnini, immagino), Eduardo Galeano: “Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio”. Dove il pubblico non è necessario.


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