Se il calcio sparisse domani

Se il calcio sparisse domani© Juventus FC via Getty Images
Italo Cucci e Ivan Zazzaroni
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“Tutti contro il calcio” titolava ieri il Corriere della Sera interpretando il sentimento e la speranza di chi non ne tollera la superiorità, la popolarità, la prevalenza, la differenza, la necessità, ma anche di chi ha bilanci che urlano e la paura di retrocedere. O le due cose insieme.

Vorremmo vedere se in Italia finisse oggi, il calcio con la c maiuscola, perché senza l’oggi - per molti - non ci può essere un domani.

Il frutto avvelenato del Coronavirus è l’individualismo sfrenato. Gli esperti sostengono che sia molto italiano, definizione furbescamente ammorbidita dell’anarchismo, atteggiamento vagante fra libertà e liberticidio. Eppure apprendiamo dalla storia che nelle emergenze - guerre, terrorismo, invasioni, epidemie - l’arma vincente è la solidarietà, l’unità d’intenti, l‘aggregazione. La Squadra. Il Coro: emoziona fino alle lacrime e non per caso, riascoltatelo, Il Coro dei Lombardi.

Invece ognuno spara sentenze a raffica in contrasto o a corredo di altre opinioni, non per raggiungere un obiettivo comune - la salvezza, la ripresa, la rinascita - ma per interesse personale, per scelta politica (la peste ha risvegliato cento destre e cento sinistre), per categorie intellettuali vaganti fra fi losofi a e fancazzismo. Per dare un buco - si dice nello sconvolto mondo dell’informazione -, per guadagnare un applauso o una pernacchia, anche questa è una medaglia, no?

Noi siamo quelli del “fare squadra” quando è in atto la disgregazione, l’abbiamo appreso seguendo per decenni, e con passione, migliaia di partite di calcio nelle quali facevano squadra anche i campioni veri, non gli individualisti solipsisti. Tanto per dire, faceva squadra anche Maradona.

Per questo ci opponiamo alla pandemica dissenteria mentale che sta producendo un danno epocale; per questo rinunciamo ad associarci a una qualche corrente di pensiero che in realtà vuole solo rubare al gioco più bello del mondo la sua ricchezza, la sua autonomia, dunque la sua bellezza. Per questo desideriamo che il calcio non chiuda i battenti assecondando una presunta volontà popolare suggerita dai social che, ad onta del nome, sono la massima rappresentazione di un individualismo malato.

Vorremmo vedere se finisse domani, il calcio grande. Chiusi i giornali sportivi, ancora più ridotte le pagine dei quotidiani d’informazione, dimezzate le emozioni, desertificati i siti e i tigì che dalle pagine sportive traggono gratuitamente linfa e stimoli; fallite le tv dello sport (con gli abbonati delle altre discipline potrebbero farci la birra!); chiusi gli stadi, i centri sportivi. Ciao ciao milioni (a centinaia) per lo Stato e le federazioni. A casa calciatori, allenatori, dirigenti, massaggiatori, magazzinieri, arbitri, agenti, direttori sportivi, impiegati, baristi, ristoratori; a fare altro gli imprenditori illuminati del pallone. Illuminati, sì, ma solo dal calcio che dà fama, talvolta gloria, anche ricchezza; ricchezza che raramente sanno conservare, costruttori di statue dai piedi d’argilla.

Questo articolo grondante amarezza e indignazione, tra allarme, sfinimento e provocazione, lo firmiamo a quattro mani: apparteniamo a generazioni diverse ma che si sono incrociate, a stagioni meravigliose in cui il calcio non era il demonio, bensì il santo, il benefattore. Il pallone ha dato da mangiare a noi, come a centinaia di migliaia di calciatori baciati dal successo o falliti. A decine di tecnici illustri e meschini, profeti di epiche sfide o di sventure. Il calcio ha risvegliato nel popolo il rispetto di una bandiera e la passione per un inno comune mentre tornano canti e suoni di parte come se l’Italia fosse una permanente Sanremo. Il calcio di Sandro Pertini, di Azeglio Ciampi. Di Sergio Mattarella che nella confessata solitudine del Quirinale, mentre si interroga - come tutti noi, in questo uniti - sul domani, sfoderando uno dei suoi mesti sorrisi si chiederà anche «che fine farà il Palermo?».


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