Quel grido giunga dentro il Palazzo

97. Roberto Mancini© ANSA
Alessandro Barbano
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“Rifateci vivere”. Le parole di Roberto Mancini, intervistato da Alberto Dalla Palma, suonano come un grido di dolore ma anche come un appello alla politica. Perché riassuma su di sé la responsabilità di decidere, fin qui delegata agli scienziati. Chi scrive non può, né vuole confutare la loro competenza. Tuttavia, se anche il cosiddetto lockdown deve considerarsi una misura epidemiologica necessaria, è certo che le sue modalità sono politiche.

Politica è una premessa avanzata dagli esperti e avallata fin qui dal governo. Si fonda sulla convinzione che gli italiani siano un popolo anarchico e disobbediente alle regole. Si tratta di un pregiudizio vecchio, e come tutti i pregiudizi privo di fondamento, ancorché radicato nel senso comune del Paese. A crederci è soprattutto una parte della classe dirigente, abituata a vivere nel privilegio e quindi a proiettarlo, erroneamente, nei comportamenti collettivi. Così sono state subito scartate una strategia del blocco parziale e una pedagogia del distanziamento sociale fondate su un principio di potenziamento dei doveri civici e di responsabilizzazione. Si è preferita la chiusura totale di qualunque attività, con divieti e sanzioni che hanno letteralmente spento il Paese.

L’esperienza di altre democrazie dimostra che una buona comunicazione pubblica sul pericolo del contagio e una sapiente opera di persuasione avrebbe prodotto in pochi giorni gli stessi risultati, con costi economici e sociali decisamente minori in qualunque comunità. La controprova di ciò è data dal fatto che il rientro al Sud dei pendolari non ha incendiato i contagi più di quanto abbiano fatto alcune incomprensibili delibere delle autorità sanitarie, che hanno inviato i malati di Covid nelle residenze per anziani. Da ieri sappiamo quali sono state le conseguenze di questa decisione: 7mila persone hanno perso la vita, praticamente un terzo di tutte le vittime del coronavirus. Quando avremo anche il bilancio dei morti da contagio ospedaliero, non meno numerosi, per sottrazione si potrà dedurre la reale letalità del virus da contatto sociale. E allora, depurato da questi imprevisti, forse il racconto della pandemia sarà parzialmente diverso da quello che fin qui abbiamo ascoltato. Divieti e sanzioni sono stati disposti attraverso singolari decreti del premier, talvolta in violazione delle prerogative del Parlamento e del Capo dello Stato. L’amputazione delle forme democratiche è l’ultima, e non debitamente considerata, conseguenza di una reattività autoimmune della democrazia italiana. Che ha solo in parte risposto all’esigenza di velocizzare le decisioni, ma ha segnato un solco profondo nel dialogo tra le istituzioni, aprendo una crisi mai vista nel rapporto tra Stato e Regioni e un’altrettanto grave, ancorché meno visibile, sospensione della funzione parlamentare.

L’Italia è entrata nel tunnel del coronavirus in una fase di grande conflittualità politica. Di primo acchito la pandemia ha avuto l’effetto di mettere la sordina alle tensioni interne alla maggioranza giallorossa, divisa da mesi in un estenuante dibattito sulla prescrizione, la cui vacuità oggi si rivela per intero, di fronte alla crisi economica e sociale in cui versa il Paese. La ridottissima agibilità del governo Conte e l’irresolubilità dell’impasse hanno trovato nell’emergenza una sorta di congelamento, ben accolto da tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, alle prese con una transizione non facile. In queste condizioni lo slittamento verso un governo del premier dettato dall’eccezione ha coinciso con una conveniente rinuncia delle leadership a giocare un ruolo. La gravità della crisi e lo shock prodotto nella classe dirigente hanno suggerito alla politica un’atteggiamento parassitario, nel timore di vedersi imputare la responsabilità di un dilagare del contagio. La delega in bianco ai tecnici si spiega così.

Così gli scienziati hanno dato l’impressione di mettere sotto tutela la democrazia italiana, con un patronage simile a quello esercitato dai magistrati in non poche stagioni della nostra recente storia repubblicana. Con un elemento in più, legato al ruolo decisivo che i media giocano nella democrazia italiana nella formazione della leadership: è accaduto che un punto di vista specialistico, qual è quello da cui muove l’osservazione dei cosiddetti esperti, per un effetto di inconsapevole «contagio mediatico» sia diventato l’angolo visuale dell’opinione pubblica.

Al giornalista del Corriere della Sera che gli chiede quando finalmente sarà il momento di uscire, Giovanni Rezza, nella sua trecentesima intervista dell’ultimo mese, risponde così: «Io sono un medico: per me il rischio dovrebbe essere zero. Ma capisco che non è una tesi sostenibile fuori dalla medicina. Sarà la politica a stabilire quale grado di rischio dovremo accettare». Quanta voglia di decidere abbia la politica si desume dal numero di commissioni tecniche istituite tra Palazzo Chigi e i singoli ministeri. Come ci dà conto il Sole 24ore, sono quindici e annoverano 450 consulenti.

Da ieri il protocollo della Figc è nelle mani del governo. È un decalogo di test sanitari e misure precauzionali per ripartire in sicurezza. Sempre da ieri, nella tabella di riepilogo delle classi di rischio e aggregazione sociale, stilata dal pool di esperti guidati da Vittorio Colao, le attività sportive sono catalogate a «rischio medio-basso». Che il grido di dolore del cittì risuoni nelle stanze del Palazzo con un fragore capace di smuovere le coscienze: «Rifateci vivere».


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