L'uso politico della paura

L'uso politico della paura© LAPRESSE
Alessandro Barbano
4 min

Lo stop del campionato francese galvanizza il partito del tutto si fermi, il via di quello tedesco e di quello spagnolo scalda l’animo dei giochisti. E sulle proteste del Paese contro l’incerta strategia d’uscita dal lockdown cade lo spettro di uno scenario pestilenziale. Una manina rende pubblica la relazione riservata del comitato tecnico scientifico, che avrebbe indotto il governo a frenare sulla fase due: nel caso si riaprisse tutto e subito – scrivono gli esperti - rischieremmo 151mila richieste di ricovero in terapia intensiva, 16 volte di più dei posti disponibili. Come si vede, l’idea di giocare con le proiezioni matematiche continua a essere una suggestione politicamente spendibile. Lo aveva già fatto il ministero della Salute, citando uno studio di gennaio che minacciava tra 600 e 800 mila morti. E che tuttavia non è servito a farci trovare preparati all’arrivo del coronavirus.

Ma non è l’uso politico della paura a coprire una navigazione a vista. Che una ripresa della vita comporti un rischio epidemiologico è circostanza che molti Paesi europei hanno ben nota. Tanto quelli, come la Svezia e il Portogallo, che hanno adottato una versione soft e liberale del lockdown, cioè senza divieti ma con una politica di responsabilizzazione dei cittadini. Tanto quelli, come la Germania, che, dopo aver stabilizzato i contagi, hanno riaperto fabbriche e uffici con misure di protezione personale e distanziamento sociale, constatando un lieve incremento dei positivi. Perché all’allentamento dei vincoli deve corrispondere una lotta al virus combattuta sul territorio, con tamponi e tracciamento dei contatti, che vedono in prima linea la medicina di base. Vuol dire - come spiega il virologo Andrea Crisanti, artefice dell’unica esperienza italiana che possa dirsi vincente, quella veneta -, ipotesi diagnostiche fatte via telefono e verificate in tempo reale, geolocalizzazione del contagio e chiusura chirurgica degli eventuali focolai, con una speciale protezione degli anziani.

Ma il punto è questo: dopo due mesi e mezzo di lotta alla pandemia, l’Italia è attrezzata per condurre una simile strategia? Una risposta empirica la fornisce un lettore torinese del Corriere dello Sport, che ci ha telefonato per raccontare la sua esperienza: si è ammalato cinquanta giorni fa, e ha ricevuto il primo tampone solo ieri. Ma la stessa conferma viene anche dagli esperti. Tanto Crisanti, quanto lo stesso consulente del ministero della Salute, Walter Ricciardi, ammettono all’unisono che la macchina sanitaria non è pronta per la fase due.

Purtroppo quello che vale per la sanità vale per tutti gli ambiti della vita del Paese. C’è una strategia per portare la scuola fuori dalla crisi? Che prefiguri un sistema ibrido centrato su una didattica fisica e una virtuale, lezioni temporalmente sfalsate e in spazi compatibili con il distanziamento sociale? C’è nell’idea di far ripartire i trasporti, il lavoro, le opere pubbliche un ridisegno delle città attorno un modello sostenibile di relazioni umane? La risposta sembra essere no. Dalla sanità all’istruzione, dal lavoro allo sport, l’azione di governo non coincide con una strategia del rischio, ma piuttosto con una tattica dell’attesa. Affinché i contagi cessino e tutto torni come prima.

Paventando lo spettro di una nuova fiammata epidemica, il governo ci sta chiedendo di farci carico della sua confusione. Noi dobbiamo chiedere al governo un piano per portarci fuori dalla crisi, che è ormai sanitaria, ma anche economica, sociale e perfino esistenziale. Per la piccola, ma simbolicamente importante, battaglia che il calcio combatte, vuol dire date e regole certe per provare a ripartire. Come ha fatto la Spagna, che pure non ha meno contagi di noi. Ma fa sua la responsabilità del rischio, non la retorica da social per buttare la palla in tribuna.


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