Il ministro, gli ultrà e la voce del Paese

Il ministro, gli ultrà e la voce del Paese© ANSA
Alessandro Barbano
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Il premier Conte lo ridimensiona, avocando a sé la decisione sulla ripartenza del campionato, perché – dice al Fatto Quotidiano – è giusto che tutti gli stakeholder del calcio abbiano un confronto col governo ai massimi livelli, dei quali evidentemente il ministro dello Sport non fa parte. Il suo Movimento Cinquestelle gli ricorda che con il calcio mangiano tutti e lo invita ad avere un atteggiamento più laico. Ma lui, Vincenzo Spadafora, suonato come un pugile, si presenta alla Camera con i soliti argomenti: se l’altro ieri si è aggrappato al sondaggio che vuole gli italiani contrari alla ripartenza, ieri ha chiamato a suo sostegno nientemeno che gli ultrà. Gli ultrà non vogliono che si torni a giocare, ha annunciato il ministro ai deputati dell’emiciclo di Montecitorio. E la notizia è risuonata in tutte le stanze della Repubblica come una scomunica raggelante. Perfino dentro a un’epidemia, che ancora strema il Paese, la dialettica parlamentare è in grado di offrirci perle di cotanta saggezza.

Ma perché mai gli ultrà non vogliono che si torni a giocare? Se l’è chiesto il ministro? Proviamo a rispondere noi. Forse il calcio che riparte a porte chiuse oscura la loro ingombrante identità. Cosa sono gli ultrà senza il dominio degli spalti, senza le coreografie e gli striscioni che suonano come inquietanti avvertimenti, senza i cori che esondano dai confini del buon senso per precipitare nel peggior senso comune? A porte chiuse gli ultrà sono semplici tifosi davanti alla tv, come noi, che teniamo le emozioni dentro un’imprecisata area tra la fronte, il torace, lo stomaco e l’anima. E al più le strozziamo in gola, con un urlo di gioia o di sgomento. Gli ultrà non sono che l’ennesima voce interessata che il ministro assolda nella sua singolare battaglia a perdere. Sono altre le voci che è giusto ascoltare. Per esempio quelle di un movimento sportivo che ha paura, come tutto il Paese. Perché due mesi di lockdown deprimono anche i più forti e fanno perdere la fiducia. In questo guado stanno i calciatori italiani, divisi tra il timore di non giocare e di perdere l’ingaggio e quello di giocare e di perdere le famiglie in un ritiro che si annuncia lungo e rigoroso. Tre settimane dal 18 maggio, recita il protocollo della Figc, per arrivare protetti alla ripartenza del campionato. E poi? Il rischio del positivo, che potrebbe fermare il giocattolo, suggerisce ancora una esistenza monacale fino a Ferragosto. Lo scudetto si annuncia come una guerra di nervi, prima ancora che di muscoli. Ma da ieri una luce si è accesa a Berlino. E racconta un Paese più potente e insieme più semplice, la Germania, che ha rotto gli indugi. E riparte nonostante dieci calciatori su 1723 testati risultino positivi. Come fa? Con la fiducia e l’affidamento reciproco, tra governo e federazione, tra club e calciatori. Che condividono insieme il rischio e lo sfidano con l’efficienza del sistema.

La strada aperta parla anche a noi, alla vigilia degli incontri che gli uomini del calcio avranno con il governo, al massimo livello, e gli scienziati. A cui auguriamo di capire ciò che il ministro dello Sport non ha fin qui capito: fermandosi, il calcio si è protetto dal virus, ma si è impoverito e si è ammalato. La cura è il campo. Medici coraggiosi e umani saprebbero somministrarla.


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