Il coraggio delle scelte

La miglior difesa: solo 23 reti subite. La linea difensiva biancoceleste è la migliore del campionato© Juventus FC via Getty Images
Alessandro Barbano
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Peggio della burocrazia virologica c’è solo l’idiozia negazionista. Che ieri è andata in scena a Milano, sfidando il distanziamento sociale e la ragione. I gilet arancioni, che al seguito di un militare in pensione hanno occupato piazza Duomo, sembravano gli Hare Krishna del fanatismo laico, contraltare di quelle 60 mila guardie civiche che il governo voleva mandare nelle piazze e sulle spiagge per insegnare l’educazione agli italiani ribelli. Un Paese che si gestisce e si racconta per estremi non trova nel suo immaginario altro che divieti e trasgressioni.

La realtà però smentisce entrambi. Perché è vero che il virus è meno letale e non scatena più la terribile polmonite interstiziale, è vero che i morti di oggi sono i pazienti gravi di aprile, è vero che nessuno dei nuovi casi riguarda giovani e quasi mai richiede terapie rianimatorie. Però il contagio è ancora tra noi e cammina sulle gambe dei cosiddetti asintomatici. E nessuno può escludere che con i freddi autunnali nuovi focolai diffusi possano tornare minacciosi.

Alla domanda sul perché e quando le epidemie si esauriscono, Giuseppe Remuzzi ha risposto venerdì al Corriere della Sera con l’umiltà che è solo dei veri scienziati: «Non lo so. Ed è una risposta sincera. Non lo sa nessuno. Sulla fine dei virus, vaccini a parte, esistono soltanto teorie, e nessuna spiegazione davvero provata scientificamente». Ignara di molti processi causali, l’epidemiologia sta alla previsione delle pandemie come la sismologia a quella dei terremoti. Così come si costruiscono in zone sismiche case che poggiano su fondamenta elastiche, allo stesso modo dobbiamo imparare a convivere con un rischio virale che oggi è ridotto rispetto a due mesi fa, ma non del tutto assente.

Tuttavia convivere non vuol dire rinunciare a vivere, ma vivere insieme. Non vuol dire vietare stupidamente, ma autorizzare prudentemente e responsabilizzare all’uso della libertà. Per questo, oltre che irrispettose dell’autonomia della politica, sono arroganti le parole del virologo Massimo Galli al Tg3: «Se fosse stato per me, avrei tenuto chiuso i confini tra le Regioni per un altro mese». Le ha pronunciate con la stessa sicumera con cui pochi giorni prima dell’incendio dei contagi sosteneva che in Italia non c’era alcun rischio pandemico.

È ora che i virologi vadano un po’ in vacanza dalla tivù, e il Paese recuperi la fiducia di cui ha bisogno. Perché una cosa è riaprire, un’altra è ripartire. Lo stiamo sperimentando di fronte a bar, ristoranti e negozi chiusi nonostante la fine dei divieti, ma anche di fronte al macchinoso riavvio del calcio. Che diligentemente si adegua alle porte chiuse. Ma legittimamente anela ai suoi tifosi. Dal 15 giugno cinema e teatri riaprono con pubblico pagante, in alcuni casi anche al chiuso. Non c’è ragione per negare un afflusso contingentato e distanziato di spettatori sugli spalti. Portogallo, Bulgaria, Polonia, Russia e Serbia lo consentiranno già dal mese di giugno. Noi potremmo farlo a partire da luglio, quando la curva dei contagi potrebbe essersi quasi azzerata.

Riaccendere il Paese vuol dire avere il coraggio delle scelte. La riapertura del calcio è stata l’impresa di pochi, confidenti e tenaci uomini contro una maggioranza di scettici o, peggio, di furbastri. C’è da sperare che la storia non si ripeta. E che il giusto tempismo delle decisioni sia la svolta di un Paese che non ragiona e non si racconta più per estremi.


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