I peccati capitali del calcio

I peccati capitali del calcio
Alessandro Barbano
4 min

Il calcio che piange miseria e pretende ristori è lo stesso che paga 15 milioni al procuratore di Vlahovic. Questa contraddizione è irresolubile. Perché da una parte stanno i minori introiti del biennio pandemico. Un miliardo e mezzo per la sola serie A. Dall’altra sta il deficit di competitività dei club italiani rispetto a quelli stranieri. E la corsa a rincorrerli nell’unico modo in cui il management sportivo sa fare: indebitandosi.
Gli amministratori dei club sono in gran parte uomini di sport. Si riconoscono e si sfidano su scudetti e coppe, meno sui risultati finanziari. Di fronte alla crisi che ha investito il settore, avvertono la sostenibilità come un cappio al collo. Non sanno come ridurre i costi e, soprattutto, non hanno alcuna idea di come far crescere i ricavi. Non hanno piani industriali credibili, vivai e programmazioni coerenti. Vivono alla giornata. Concedono un triennale generoso al tecnico sponsorizzato dal procuratore del momento, poi lo licenziano dopo nove giornate. Con l’acqua alla gola perdono lucidità, e giocano d’azzardo. Per uno che recupera, altri affondano.
Alla politica non chiedono stadi, ma ristori. La politica traccheggia, presa da altre emergenze, e dissuasa dalla preoccupazione moralistica di non foraggiare i ricchi spreconi. Il cane si morde la coda. Perché i ricchi spreconi rischiano di fallire, ma continuano a sprecare.
La crisi del calcio italiano è anzitutto crisi di fiducia. I presidenti, gli amministratori, i diesse diffidano gli uni degli altri, e giocano a fregarsi. Così si legano mani e piedi ai faccendieri che lucrano sulla loro rivalità. E la crisi di fiducia diventa crisi di legalità. Con procuratori che firmano accordi sotto banco con le società e siedono al tavolo delle trattative rappresentando più parti in causa, anche in conflitto di interesse tra loro. Alla fine la spuntano. Perché sanno che il Vlahovic di turno è parte di una scommessa sulla quale il management sportivo ha puntato il suo futuro. Quindici milioni di provvigione e intermediazione su settanta milioni di cartellino valgono una percentuale del 21,5 per cento. È come acquistare una casa da un milione e pagare all’agente immobiliare 215 mila euro. Qui è arrivato il calcio.
In queste condizioni la globalizzazione è una condanna, perché amplifica i punti di debolezza dei sistemi nazionali. Nessuna federazione, per fare un esempio, si sognerebbe di mettere un tetto agli emolumenti degli agenti. Perché finirebbe per incentivare il mercato nero e la concorrenza straniera. Ma sbaglia chi pensa che questo sia l’esito naturale di un eccesso di laissez faire. Poiché il calcio non è un esempio di libero mercato. Esprime piuttosto un sistema chiuso e intrasparente, fatto di oligopoli e corporativismi. Della concorrenza autentica è solo un pessimo surrogato. Paga un prezzo alto al brodo primordiale in cui è immerso: la sua arretratezza culturale. I dispetti gli fanno perdere credibilità, e allettano i furfanti di ogni tipo. L’indisciplina gli chiude gli spalti, tagliandogli fonti di reddito in piena emergenza. Gli insulti e il razzismo gli rovinano l’immagine, e allontano lo spettacolo dai giovani e dalle famiglie. Il conservatorismo gli impedisce di riformare i campionati, negandogli competitività. L’avidità lo taglia fuori da accordi commerciali lungimiranti, per esempio con i broadcaster. L’autarchia lo isola, rendendolo sordo ai richiami della Federazione e dalle altri istituzioni del Paese. Sono questi i peccati capitali del calcio. Fanno della Lega un Circo Barnum di ostinazioni e bizzarrie, che si avvitano su se stesse. Dentro ci sono anche imprenditori veri, ma è come se al pallone riservassero il loro lato oscuro, perché, come ogni passione forte, la passione calcistica ha in sé una componente di masochismo. I vertici tra i club somigliano troppo alle sedute del senato romano alla vigilia delle Idi di marzo. C’è sempre qualcuno che deve stare in allerta.
Un calcio così messo ha ancora il diritto di chiedere aiuto. Ma ha prima il dovere di guardarsi allo specchio.


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